Pisa – Ricordo ancora come fosse oggi quando, uscendo dalla stanza della coordinatrice del programma Erasmus dell’Università di Pisa, al secondo piano di via Pasquale Paoli, una mia collega che attendeva il suo turno mi chiese: «Dove ti mandano?» Risposi dubbioso: «Leicester». E lei incalzante «ma dov’è?». La risposta fu scettica: «Boh dovrebbe essere da qualche parte nel mezzo dell’Inghilterra, speriamo non sia un posto di m…..».
Io avrei voluto andare a York, Oxford o Edimburgo e non in una città industriale cupa e grigia. La prima cosa luminosa che vidi fu lo stadio di calcio del Leicester. Eccolo lì, imperioso si erigeva nella vallata, tra supermercati, parcheggi e carrozzerie, il Filbert Street. Reperto storico dell’architettura sportiva, costruito secondo il canonico stile dei teatri del calcio anglosassoni, pianta rettangolare, riproduzione fedele delle tribune del Subbuteo.
Come studente avevo diritto allo sconto sul prezzo del biglietto, potevo scegliere il numero di seggiolino e avevo lo sconto sul merchandising. Nell’ordine ho collezionato e impacchettato in qualche scatola nascosta in ripostiglio: sciarpa, maglietta, portachiavi e tazza. Tutto rigorosamente originale con logo ritraente il muso della volpe, i colori bianco e blu reale.
I Foxes – le volpi – erano alla vigilia di uno storico traguardo, l’approdo in Premiership dopo decenni di militanza in amene categorie. Sino ad allora in città l’orgoglio sportivo era prerogativa degli amanti del rugby, i Tigers loro sì erano nell’Olimpo, anzi erano i migliori tra i migliori. L’impari divario di classe tra le Tigri e le Volpi veniva una volta tanto colmato con una promozione nel Gotha del calcio.
Il successo, sopratutto di pubblico, durò nemmeno un’estate. La stagione successiva fu deludente. Tifavo per una squadra di perdenti ad un passo da essere relegati fuori dalla Premier League, che giocava un pessimo calcio, aveva una scandalosa difesa e un infruttuoso attacco, ma era pur sempre diventata la mia squadra del cuore e al Dio calcio non si comanda. La mia parentesi in terra d’Albione si concluse prima di Natale, a stagione già compromessa.
Passarono gli anni lontano da Leicester. Nel 2000 intrapresi una nuova fuga dall’Italia, e il destino, non senza una piccola vena di malinconia, mi portò nuovamente all’università di Leicester. Ero tornato a stare nel vecchio campus. A dare un senso compiuto al break del fine settimana c’era ancora una volta il football e il suo tempio. Filbert Street era ancora lì in piedi, oramai vecchio e obsoleto, pronto per essere demolito definitivamente. Il nuovo stadio sarebbe sorto poco distante, con un nome tutto nuovo: Walkers. La famosa azienda produttrice di patatine, e la cui fabbrica dava lavoro a mezza Leicester proletaria.
Una città con poca storia e un futuro tutto da scoprire, talmente multiculturale al punto che la diversità era comunemente naturale. In essere un “esperimento di coesistenza”, un modello per la vecchia Inghilterra e la nuova Europa. Il calcio, nella sua emanazione violenta e demenziale, esprimeva la sua pochezza alla rivoluzione demografica in corso.
Prassi odiosa i canti razzisti intonati dagli hooligans avversari: “You are Pak. Fottuti pakistani”. Intorno a me di tifosi di origine indiana o pakistana se ne vedevano pochi, oggi per fortuna sono molti di più e quei cori molti di meno. Per quanto mi riguardava nessuno mi rivolgeva la parola, andavo allo stadio da solo e in silenzio uscivo.
Il 20 Gennaio 2001 la mia popolarità esplose improvvisamente in “curva”, la partita era Leicester vs Arsenal. Bastarono cinque minuti di gioco: un dribbling, un lancio pennellato e Roberto Mancini diventava l’idolo della folla e per riflesso assumevo lo status di “ospite” importante. Al ’73 il trentaseienne fuoriclasse usciva dal campo applaudito dal pubblico.
Al triplice fischio persi il conto delle persone che vennero a stringermi la mano e che volevano ascoltare il commento della partita fatto da the Italian. Non ringrazierò mai abbastanza il Mancio per quella sua breve esperienza a Leicester. La squadra chiuderà la stagione con 48 punti e la salvezza. Nel 2002 la retrocessione e lo smantellamento di Filbert Street portarono ciascuno per la sua strada. Loro con problemi societari io con quelli del precariato. Io in direzione Medioriente e i suoi conflitti, loro verso l’Asia e i suoi capitali.
Poi nel 2011 l’inizio di una nuova era, il Walkers stadium cambia nome in King Power, il potente gruppo economico thailandese si compra il Leicester City FC. Cambiano i proprietari ma non i colori della casacca. A Luglio 2015 esce la notizia che in panchina siederà Claudio Ranieri, allenatore girovago. I media inglesi con arroganza indisponente continuano a bollarlo the Tinkerman, nomignolo affibbiatogli quando era al Chelsea, dove è passato alla storia per innumerevoli e talvolta strampalati cambi di formazione.
Dare dell’indeciso ad un allenatore è come dargli del perdente in partenza. Invece Mr Ranieri da Testaccio è nato per stupire e non ha portato con se solo le valigie dell’italiano migrante ma un progetto: costruire una macchina infernale da goal.
La forza propulsiva e offensiva è nei piedi e nella testa di due “sconosciuti” Jamie Vardy, un ex operaio passato dalle reali carceri, e Riyad Mahrez, algerino prelevato dalla serie B francese. Il collettivo si amalgama di partita in partita, i punti crescono e le quote scendono. Alla 17esima giornata il Leicester è primo. Seguono vittorie a ripetizione contro Liverpool, Manchester City, Norwich, Crystal Palace, Chelsea, Watford. Il calore della città incomincia ad ardere, il successo, impensabile, è alla portata.
Leicester crede nella favola. Si parla di intitolare al tecnico una strada. Lui piange in campo dopo l’ennesima vittoria. Il 16 aprile è il momento della verità, i Foxes avrebbero la possibilità di allungare sul Tottenham e ipotecare un finale di campionato tranquillo, in discesa verso l’arrivo trionfale. Il match non va come deve andare, Vardy si becca il cartellino rosso e Kasper Schmeichel due goals. Il pareggio raggiunto su calcio di rigore nel controverso extra time. Segna Leonardo Ulloa, l’urlo dell’argentino è un ruggito.
Qualche giorno dopo il commento ai cronisti di Ranieri è una perla: «Hey man, we’re in Champions League, come on. Dilliding, dillidong». Con lo Swansea allenato da Guidolin i ragazzi del coach romano calano un poker che porta temporaneamente il Leicester a +8, che poi si trasformerà in +7 sugli Spurs. E una vittoria dal titolo per entrare nella leggenda. Invece è un doppio pareggio, con il Man United per Ranieri e con il Chelsea per il Tottenheam, a scrivere la storia. Campioni, stupendo.
Leicester’ til I die, risuona sul web e nei pub. Avrei potuto credere a tutto ma mai ad un miracolo del genere, che ribalta tutte le teorie della fisica e dimostra che anche gli asini, quando osano, volano. The End. Happy End.