Firenze – Sarà alla fine, La mer di Charles Trenet a stemperare la tensione. Dopo un’ora e passa di spaesamenti dolorosi vissuti ai margini dell’esistenza, ci voleva quella delicata malinconia, spuntata chissà come da un organetto di periferia, a farci immaginare l’eco lontana di una forse perduta felicità.
Sono ferite aperte nei campi di cotone della solitudine di chi si sente estraneo (dunque molto più che straniero) le parole accese da Bernard Marie Koltès. Autore di questa Notte poco prima delle foreste, vertiginoso delirio di una via crucis senza ritorno, che Pierfrancesco Favino ha assunto come antidoto (in forma narrante) alla violenza progressiva dei giorni nostri contro chi non ci è “geograficamente” affine.
Il fatto è che queste pagine, attraversate da un’urgenza febbrile, in fuga dalla clandestinità dei “panni sporchi” da lavare in casa e tenere sotto il tappeto, furono scritte da Koltès nel 1977: quarant’anni fa! (debuttarono al festival di Avignone). Poco o niente è cambiato. Anzi. Il morbo dell’immoralità dispiega ali ben più assordanti.
Lo spirito dello scrittore francese, che sarebbe prematuramente morto di aids nel 1989, rifletteva certo, più intimamente, sul concetto di “diversità” come espressione di isolamento personale (gli anni spezzati della giovinezza) che come fenomeno collettivo di migrazione epocale. L’individuo allora si racconta. Eccolo lì, nudo e indifeso. Lo accompagna una notte piovosa.
E’ uno di noi. Un dannato senza terra e senza nome. Guardandolo, ascoltandolo possiamo scoprirci come siamo e come non vorremmo essere? La verità è disturbante. Stride sul nervo scoperto della nostra etica benpensante. Del nostro quotidiano rassicurante. Favino accetta il rischio. Da profeta disarmato. Uomo e attore in bilico sull’asse della vulnerabilità. E quando afferma che non lo considera la “Notte” un monologo quanto piuttosto “un dialogo aperto con il pubblico”, dice il vero. L’ufficialità, la neutralità della Pergola, dove lo spettacolo resta in scena fino a domenica, il grande palcoscenico, il mattatore, il pubblico “ordinato” e plaudente fra i palchi e la platea, ne rarefa la portata e sporca le traiettorie .
Che diventano inevitabilmente di scambio più che di confronto. Di suggestione interpretativa (Favino è bravissimo, conscio del ruolo e del suo significato, magnifico il controllo della partitura, perché questa in fondo è la “notte”, un pentagramma di luci e chiaroscuri) più che di partecipazione dialettica e immersione emotiva. Inoltrandosi nel girone infernale, contrappuntato da invettive e stridori, Favino/Koltés muove con perizia la sua macchina attoriale, lucida e appassionata. Mai retorica. Senza fuorvianti virtuosismi.
L’autenticità del dolore e l’irreperibilità della vita sono tutte lì: in quella eco, tenera e selvaggia, che dà voce al deserto dei nostri destini. Lo straniero che è in noi, e che non conosciamo, lancia i suoi segnali. Angosciosi ritornelli. Ancestrali paure. Nel vuoto sismico del palcoscenico (la regia coerentemente rarefatta è firmata da Lorenzo Gioielli), per chi sa ascoltare, tutto forse allora diventa più chiaro.
Foto di Fabio Lovino