Fallimento della politica e guerre asimmetriche, domina solo la forza

Nello stato di natura nessuno vince

Noi siamo i partigiani dell’oblio”. Questa frase, contenuta in uno dei numeri dell’Internazionale Situazionista, l’organizzazione guidata da Guy Debord, in questi giorni assume un particolare eco. Tra la guerra in Ucraina e quella dei terroristi di Hamas contro Israele, il diritto internazionale ha preso così tante mazzate che anche la metà sarebbe già troppa. Nell’alto medioevo, quando nacque, il diritto delle relazioni tra popoli poneva Dio come giudice supremo. Il rispetto delle convenzioni era garantito dal fatto che Dio, prima o poi, avrebbe fatto pagare caro il tradimento e le violazioni delle sue leggi, tra cui quella sulla guerra giusta. In altre parole, Dio era la Corte Penale Internazionale dell’epoca.

In questi giorni si parla molto di diritto internazionale umanitario, al cui interno cova il diritto bellico, sostanzialmente le Convenzioni di Ginevra e i Protocolli Aggiuntivi. Le guerre odierne sono guerre a tutti gli effetti, ma sfuggono al diritto: non sono dichiarate, sono asimmetriche, sono guerre al terrorismo. Si usano armi vietate. Si fa strage di civili. Forse un giorno qualche corte internazionale giudicherà. Forse. L’uso della forza è tornato, quindi, a essere dominante e si porta dietro lo smantellamento di quell’antico concetto di civiltà fondato su un sistema giuridico internazionale debole e difficilmente applicabile, tuttavia esistente, pur senza avere le caratteristiche di “ius cogens”. Per ora, lo stato di natura è tornato a regolare, si fa per dire, le relazioni tra i popoli. Nello stato di natura nessuno vince. Tutti perdono.

Oggi è la forza allo stato puro – con la sua antinomia giustizia/vendetta – a decidere chi ha ragione. In una situazione complicata e piena di storici intrecci e relazioni sotterranee come il conflitto israelo-palestinese, si può stare da una parte o dall’altra e tifare chi si vuole, ma è del tutto ininfluente giacché, come ricordava Marco Pannella, dove c’è strage di diritto c’è sempre strage di popoli. Se si dovesse valutare le probabilità di una soluzione, una qualsiasi, per la guerra in corso a Gaza, dalle reazioni delle opposte tifoserie in Occidente, si potrebbe ritenere ormai sicura una guerra mondiale con utilizzo di ordigni termo-nucleari. In fondo, anche questa è una soluzione come un’altra, entrata com’è a far parte di una normale attesa.

Gli accadimenti di questi giorni rivestono una profonda rilevanza nel debole mondo del diritto internazionale. La guerra in Ucraina è relegata in secondo piano. L’attacco di Hamas in Israele è iniziato il 7 ottobre, compleanno di Vladimir Putin: una semplice coincidenza…. Annoto subito che il 27 ottobre l’Ufficio delle Nazioni Unite che si occupa di questioni umanitarie ha accusato Israele di commettere crimini di guerra nella Striscia di Gaza, avendo messo in atto una ”punizione collettiva” della popolazione palestinese dopo il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre. Il concetto di punizione collettiva è la chiave di volta di questa storia, una sorta di interesse legittimo di un popolo, in questo caso palestinese, a non pagare le colpe di altri, ma è anche un avvertimento per Israele a non superare linee rosse che consentirebbero alla comunità mondiale di dimostrare (affermare?) che Gerusalemme sta passando dalla ragione al torto. Il limite al diritto di difesa di Israele è invisibile, varia secondo le sensibilità, e si mescola al suo diritto di esistere in qualità di stato ebraico.

Il politologo Piero Ignazi, su Il Domani del 27 ottobre, riflette sul diritto internazionale. Per lui, se da una parte è ormai pacifico il rischio per i responsabili di Israele di finire di fronte alla Corte Penale Internazionale (Cpi) per violazioni del diritto umanitario, dall’altra anche i terroristi di Hamas si collocano sullo stesso piano bellico: violazione art. 8 Statuto di Roma: crimini di guerra. La seconda ipotesi tuttavia potebbe non essere così lineare. Hamas è un’organizzazione terrorista, riconosciuta come tale da gran parte della comunità internazionale tra cui l’UE, e ai sensi dello Statuto di Roma, prima che la Cpi possa procedere, si dovrebbe dimostrare la sussistenza della relazione legale tra Hamas e lo Stato di Palestina. Occorre, infatti, ricordare in proposito che, diversamente da Israele, lo “Stato della Palestina” ha ratificato il trattato istitutivo della Cpi nel gennaio 2015, ed è da allora annoverato tra gli Stati-parte della Corte la quale, nel 2021, ha emesso una importante decisione in relazione alla situazione della Palestina, sotto “esame preliminare” da cinque anni. La Prima Pre-Trial Chamber della Cpi ha deciso, a maggioranza, che la giurisdizione territoriale della Corte nella situazione in Palestina si estende ai territori occupati da Israele dal 1967, vale a dire la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est.

La Palestina, in altre parole, è stata riconosciuta come uno Stato ai fini dell’esercizio della giurisdizione della Corte penale internazionale. Ammettere che un’organizzazione terrorista (Hamas) rappresenti la Palestina, significherebbe per la Corte ammettere una palese violazione dello Statuto (le condizioni per farne parte). Per fare un esempio: è come se l’Isis avesse fatto parte degli Stati firmatari della Corte. Quelli di Hamas sono a tutti gli effetti atti di terrorismo, e come tali andrebbero giudicati. I crimini di terrorismo però non ricadono sotto la giurisdizione della Corte Penale Internazionale, potrebbero piuttosto riversarsi in quella del Tribunale speciale per il Libano (Tsl). Un tribunale delle Nazioni Unite che ora vivacchia ma che per molti autori potrebbe diventare la corte internazionale competente sul crimine di terrorismo internazionale. Ricordo che il primo presidente del Tsl fu Antonio Cassese.

Triestino Mariniello, docente di diritto penale internazionale e membro del team di rappresentanza legale delle vittime di Gaza di fronte alla Corte Penale Internazionale, ha fatto alcune dichiarazioni che hanno chiarito alcuni passaggi. Secondo lui, “contesto e violazioni del diritto umanitario devono sempre andare di pari passo”. In altre parole, quanto afferma è la dottrina ONU/Guterres, quella della punizione collettiva, applicata al diritto penale internazionale. Ora, che il governo di Gerusalemme non abbia ancora capito che la dottrina Guterres altro non è che la posizione del Consiglio di Sicurezza è molto strano. Forse occorrerà tempo, ma credo ci arriverà.

Ancora, Mariniello si dice convinto che la procura della Corte Penale Internazionale potrebbe agire “motu proprio” “considerata l’ampia discrezionalità” a disposizione della Cpi. Il punto non è però così pacifico, la procura della Cpi potrebbe non godere di così ampia discrezionalità. Per fare un esempio, il potere di avviare anche solo indagini “motu proprio” è subordinato al controllo giurisdizionale della Camera preliminare – la Pre-Trial Chamber – composta da tre giudici. Comunque sia, occorrono parecchi anni per attivare i farraginosi meccanismi della giustizia penale internazionale. Sostiene infine Mariniello che “la fattispecie incriminatrice di terrorismo è estremamente ambigua a livello internazionale”. Antonio Cassese, grande giurista e primo presidente anche del Tribunale ad hoc sulla ex Jugoslavia, delineando i tratti fondamentali del crimine di terrorismo internazionale, ha invece evidenziato come in realtà ci sia un ampio consenso sulla maggior parte degli elementi costitutivi, mentre il dissenso risiederebbe sull’esistenza dell’eccezione di escludere o meno dal novero dei crimini di terrorismo le azioni dei combattenti per la libertà dei popoli che, per esempio, lottano per l’autodeterminazione.

In sostanza, Mariniello fa capire ai lettori che alla sbarra della Corte Penale Internazionale potrebbero finire i responsabili di Israele ma non i terroristi di Hamas. I primi, rappresentanti di uno Stato e della sua forza legale, potrebbero essere accusati di aver violato il diritto umanitario e di aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità. I secondi, invece, hanno commesso atti di terrorismo, un crimine “transnazionale” che però non ricade sotto la giurisdizione della Cpi. È tutto ciò purtroppo potrebbe accadere davvero.

Quando nel 1988, in piena Intifada dei sassi, mi ritrovai per un non breve periodo in Israele, entrai in contatto, grazie al partito Ratz di Shulamit Aloni e a uno dei suoi leader, Yossi Sarid, con i rappresentanti della collettività araba di Gerusalemme. Un contatto rapido, quasi di rito. Gli arabi di dentro, o palestinesi israeliani, sono circa il venti per cento della popolazione complessiva di Israele: più o meno, due milioni di donne e uomini con un indice di crescita demografica piuttosto elevato. In questi giorni mi sono chiesto quale possa essere la posizione della collettività dei palestinesi israeliani, non solo a seguito della guerra in corso, ma della ristrutturazione generale dello Stato di Israele che – a partire dalla legge fondamentale del 2018 e dalla riforma della giustizia – sembra abbandonare la laicità in nome di una rinnovata teocrazia istituzionale. Secondo molti autori, gli arabi israeliani sono cittadini emarginati, che stanno affermando con difficoltà la propria identità rispetto a quella ebraica. E anche se non hanno partecipato alle manifestazioni di massa contro la riforma giudiziaria dei mesi scorsi, non si sono nemmeno schierati in difesa del governo Netanyahu, attaccato internamente dalle antiche componenti askenazite della società israeliana.

È naturale pensare che il pericolo oggi per Israele sia la guerra contro Hamas con i suoi conseguenti effetti collaterali (Hezbollah, Iran, eccetera). Il dubbio però è se davvero il conflitto esterno sia l’unico pericolo per Gerusalemme. Come ha detto lo stesso presidente di Israele, Isaac Herzog, qualche tempo fa: lo spettro della guerra civile è reale..

Approfondendo il tema dei diritti umani – diritti civili e diritti economici e sociali, emerge che l’attenzione per la tutela dei principi dei diritti umani è certamente più costante e articolata oggi che nel passato. Tuttavia, paradossalmente, le violazioni sono in aumento. Perché? Molti i motivi, e le critiche di numerosi autori puntano il dito anche contro “il diritto internazionale dei diritti umani che è diventato, in qualche senso, il sostituto della religione nelle società secolarizzate” (Christina M. Cerna).

Tirando le fila, se la politica fallisce e rimane solo la forza a regolamentare i rapporti umani, neanche l’attenzione del diritto sarà (è) più capace di porre una barriera alla tutela dei diritti: dell’individuo e dei popoli. La dottrina “Due popoli, due Stati” è stata affossata tanti anni fa, ma oggi viene riesumata dalle Nazioni Unite come foglia di fico del suo stesso fallimento. Ogniqualvolta riecheggia la frase “violazione del diritto internazionale” sorge un legittimo dubbio. La politica sta forse diventando il terreno di scontro e vittoria delle emozioni? E la fonte principale della inadeguatezza delle tutele sembra proprio dovuta al carattere giuridico dei diritti umani? Affermazione questa paradossale e antistorica: il dubbio, però, rimane. Del resto, i diritti umani stanno su un piano inclinato dove lo scontro tra morale, politica e diritto è continuo. Eterno. Relativistico. Cultura giuridica europea contro Asian values. Il concetto di Ubuntu nel diritto africano. L’Halachà ebraica. La Haqq nell’Islam. Lo scontro non è quindi di civiltà, ma tra modelli giuridici. E l’Europa politica dove si posizionerà?

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