Il desiderio di essere sepolto a Peredelkino, il villaggio degli scrittori alle porte di Mosca, ci rivela la sua vera natura. Russo nel cuore e in esilio negli US, uno dei più grandi scrittori del secolo scorso, morto in Ospedale a Tulsa ( insegnava letteratura Russa alla Università di quella città), a causa di un blocco cardiaco il 1° Aprile scorso.
Un uomo che ha rappresentato due generazioni, un poeta controverso che si coglie solo se si ha ben chiaro il contesto che forma in Russia dopo la morte di Stalin, quel clima socio-politico di transizione che storicamente viene indicato come “disgelo”. Ancora vivi Anna A. Achmatova (1889-1966) e Boris L. Pasternak (1890-1960) nascono nuove voci poetiche che si relazionano con le esperienze avanguardistiche e generano una poesia da palcoscenico, con carattere enfatico che più che da scrittura è poesia da lettura e declamazione; il canto entra in rapporto con il corpo e con la gestualità del poeta. Di queste voci Evtusenko è un esponente di spicco, altri sono Andrej Voznesenskij, R. I. Roždestvenskij, nonché i poeti-cantori come Vladimir Vysockij, Bulat Okudždava, Aleksandr Galič. Liriche alla terra d’origine la Siberia, cantore della solitudine. Questa che proponiamo ha aperto il mio mondo poetico e ha il sapore della mia infanzia, la leggevo all’inizio degli anni ’70 su un libro portato a casa da mio padre, che prende il nome da questa poesia, nelle Edizioni Feltrinelli.
1956 – LA STAZIONE DI ZIMA
[…]
Partii…
Mi sentivo triste e puro,
triste certamente, perché
avevo imparato qualcosa nella vita,
ma che cosa,
non me ne sapevo ancora render conto.
Bevvi la vodka coi vicini, in loro onore.
Per l’ultima volta attraversai la mia Zimà.
Continuavo a camminare, triste e libero,
e avendo superato l’ultimo quartiere,
salii su un monticello assolato
e a lungo là rimasi.
Dall’alto vedevo l’edificio della stazione,
i magazzini, i fienili e le case.
Mi parlò allora la stazione di Zimà.
Ecco che mi disse la stazione di Zimà:
“Vivo modestamente, schiaccio noci,
in silenzio emetto fumo dalle mie locomotive,
ma anch’io rifletto molto sull’epoca nostra,
l’amo, e non vado contro la mia coscienza.
Tu non sei il solo al mondo
in questa tua ricerca, nelle intenzioni, nella lotta.
Non t’affliggere, figliolo, se non hai risposto
alla domanda che ti è stata fatta.
Abbi pazienza, osserva, ascolta.
Cerca, cerca. Percorri tutta la terra.
Sì, la verità è buona, ma la felicità è migliore,
eppure non c’è felicità senza verità.
Cammina per il mondo a testa alta,
con il cuore e gli occhi in avanti,
e sul viso
l’umida sferza delle nostre conifere
e sulle ciglia
lacrime e tempesta.
Ama gli uomini, e saprai capirli.
Ricordati.
Io ti seguo.
Quando sarà difficile, tornerai da me…
Va!”
E io andai.
E sono in cammino.
Poesia d’amore, rivendicazione di libertà, impegno civile, denuncia contro la dittatura, la burocrazia i carrieristi. Una poesia provocatoria la sua che non sfocia mai in dissidenza. Un verso il suo lontano da ogni possibile ermetismo, leggero ma denso e profondo, scorrevole, carico d’immagini che si rincorrono per dare il risultato di una poesia potente, ricca, forte e senza incertezze. Giovanissimo abbandonato da entrambi i genitori lascia la scuola e scrive poesie. Letteratura e calcio sono i suoi amori, i suoi maestri Vladimir Majakovskij e Sergej Esenin e con la morte di Stalin sale la sua notorietà, diventa simbolo del suo paese, i giovani sovietici accorrono ai suoi eventi pubblici, diviene ambasciatore della cultura russa nel mondo. Viaggi frequenti all’estero hanno formato un poeta cosciente e coscienza del limite, della tensione per superarlo, coscienza lui stesso del mondo. Una seconda poesia ora che ce lo rende fortemente attuale come cittadino globale.
Vorrei nascere in tutti i paesi
Vorrei nascere in tutti i paesi
avere un passaporto per tutti,
che provochi il panico delle cancellerie
e essere tutti i pesci
in tutti gli oceani
e tutti i cani nelle strade del mondo.
Non voglio inchinarmi
davanti a nessun dio, la parte non voglio recitare
di un hippy russo ortodosso
ma vorrei tuffarmi
nelle profondità del Bajkal
e sbuffando
riemergere in altre acque.
Perché non nel Mississippi?
Vorrei
nel mio maledetto universo amato,
essere un’erba umile,
non un narciso delicato
che si bacia nello specchio.
Mi piacerebbe essere
una qualsiasi creatura di dio
sia pure l’ultima iena rognosa
ma in nessun caso un tiranno
e di un tiranno, nemmeno il gatto.
Vorrei reincarnarmi come uomo
in qualsiasi personificazione:
torturato dentro un carcere,
o un bambino senza tetto nei tuguri di Hong-Kong,
o scheletro vivente nel Bangladesh
o un sacro mendicante nel Tibet,
o un nero di Città del Capo,
ma mai incarnare l’immagine di Rambo.
Odio soltanto gli ipocriti,
iene condite da una spessa melassa.
Vorrei giacere
sotto il bisturi di tutti i chirurghi del mondo,
essere gobbo, cieco,
provare ogni malattia, deformità e ferita
essere un mutilato di guerra
o quello che raccoglie le cicche da terra
purché in me non si insinui
il microbo infame della prepotenza.
Non vorrei fare parte dell’élite
ma di certo neppure del gregge dei vigliacchi
né essere cane da gregge
né pastore che al gregge si soggioga.
E vorrei essere felice
ma non a spese degli infelici
e vorrei essere libero, ma non a spese di chi non lo è.
Vorrei amare tutte le donne del mondo
e vorrei essere donna anch’io
una volta soltanto…
Madre-natura ha disprezzato l’uomo.
Perché non dargli
la maternità?
Se sotto il suo cuore
si agitasse un bambino
forse l’uomo
sarebbe meno crudele
Vorrei essere il pane di tutti i giorni,
diciamo una tazza di riso,
nelle mani di una sofferente madre vietnamita,
o una cipolla nella brodaglia di un carcere di Haiti,
o il vino economico
in una taverna di operai napoletani
o un tubetto di formaggio
in orbita lunare.
Che mi mangino pure
e mi bevano,
lasciatemi essere utile nella mia morte.
Vorrei appartenere a tutte le epoche, far trasecolare la storia
tanto da stordirla con la mia impudenza.
Vorrei condurre Nefertiti
in una trojka di Psi^n.
Vorrei cento volte prolungare
la durata di un attimo
per potere nello stesso istante
bere alcool con i pescatori siberiani,
e insieme a Omero,
Dante, Shakespeare e Tolstoj
sedermi a bere qualunque cosa,
tranne, ovviamente, una Coca Cola.
Baciare a Beirut,
danzare in Congo al suono del tam-tam,
scioperare alla Renault,
correre dietro a un pallone con i ragazzi di Copacabana.
Vorrei parlare tutte le lingue,
come le acque segrete del sottosuolo
Fare di colpo tutte le professioni
e ottenere così che
un Evtusenko sia semplicemente poeta,
un altro militante clandestino da qualche parte,
non posso dire dove, per ragioni di sicurezza.
Un terzo, uno studente di Berkeley
e un quarto un entusiasta mandriano cileno.
Un quinto potrebbe essere un maestro di bambini eschimesi in Alaska,
un sesto un giovane presidente in qualche dove,
anche in Sierra Leone, diciamo,
un settimo
scuoterebbe soltanto il sonaglio di una carrozzina
e il decimo…
il centesimo…
il milionesimo…
Per me essere me stesso non basta
fatemi essere tutti!
E ciascun essere, in coppia, come si usa.
Ma dio, risparmiando sulla carta carbone
mi ha prodotto in un solo esemplare.
Ma a dio confonderò le carte. Lo raggirerò!
Sarò in migliaia di esemplari fino al mio ultimo giorno
perché la terra vibri con me
e i computer impazziscano
per il mio universale censimento.
Vorrei lottare su tutte le tue barricate, umanità,
stringermi ai Pirenei,
coprirmi di sabbia attraverso il Sahara
e accettare la fede della grande fratellanza umana,
e fare mio il volto di tutta l’umanità.
E morire ogni notte come una luna esausta
e rinascere ogni mattina
come sole appena nato
con una leggera macchia incancellabile
sulla testa.
E quando morirò,
un Francois Villon siberiano,
che il mio corpo non riposi
in terra inglese
o italiana,
ma nella amara terra russa,
su una verde collina,
dove per la prima volta
mi sono sentito tutto il mondo.