Un mondo sempre più in conflitto, con poche aperture, in cui la parola d’ordine della montante marea sembra essere quella del contrasto, del livore. Della guerra. Un momento storico in cui la cultura, che è in buona sostanza confronto e scambio, sembra sotto scacco. Ed è questo, il punto della storia dove l’VIII Conferenza nazionale dell’Aici prende il via, a Brescia, nonostante la direzione contraria del vento, mettendo l’accento ostinatamente sulla cultura. E’ il presidente onorario, fresco di elezione dopo la lunga presidenza (2012-2023) fondativa dell’Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane, Valdo Spini, a richiamare l’attenzione, nel suo discorso introduttivo, sul binomio “riluttante”, cultura e violenza. Non senza ricordare le tappe della sua presidenza, iniziata dieci anni fa, con la prima conferenza nazionale a Torino, poi sviluppatosi nelle tappe successive a Conversano (Bari), Lucca, Trieste, Ravello (Salerno), Firenze, Napoli.
Presidente, in quale scenario ci troviamo?
“Per rispondere alla sua domanda, cominciamo dalla cultura. La cultura è soft power. È una definizione in inglese di ampio significato, difficilmente traducibile in italiano. Letteralmente sarebbe potere soffice, ma è un termine inadeguato, così come potere dolce o potere convincitivo. Forse più comprensivo potrebbe essere il termine potere immateriale. Il motivo per cui ho cominciato0 con questo richiamo, è perché oggi siamo ripiombati in pieno in periodi di hard power, di un potere molto concreto, quello delle armi”.
Si sta ovviamente riferendo alla guerra russo-ucraina…
“A livello internazionale, abbiamo registrato l’attacco della Russia all’Ucraina e il conseguente lungo conflitto in atto, in un’Europa che non conosceva più guerre di questo genere dalla II guerra mondiale in poi. Poche settimane fa, l‘attacco terroristico di Hamas contro Israele e la susseguente offensiva israeliana contro Gaza con un tragico bilancio, un tragico tributo di vittime civili e di bambini, assistendo con speranza alla tenuta della tregua e al rilascio seppur graduale degli ostaggi. Ma c’è anche un’altra guerra, di cui si sta vivendo una tragica recrudescenza, ovvero il drammatico bilancio dei femminicidi. Fenomeno non solo italiano, che alligna in un generale clima di rancore e di violenza. Ma anche di disincanto diffuso in vari strati della popolazione della nostra Nazione, del tutto contradditori con un mondo in cui si affermino i valori della cultura; valori umanistici, di rispetto della persona, di confronto nel dialogo, di approfondimento e di studio piuttosto che di opposizione aprioristica e infine violenta”.
Presidente, non avverte il pericolo di un fatale scoraggiamento, di fronte alle difficoltà o meglio direi della piega prevalente dell’attuale momento storico?
“Lei mi chiede se ci dobbiamo scoraggiare. No, soprattutto se pensiamo al legame profondo che intercorre tra la cultura così come l’abbiamo definita e la democrazia, tra i valori della cultura e ii valori della democrazia. Se vogliamo difendere la democrazia dobbiamo difendere la cultura e questa è la missione che ci siamo scelti”.
Quanto influisce sulla nostra sorte, o meglio, sulla nostra missione, il fatto che ci troviamo in Europa?
“Siamo collocati, lo si voglia o no, se ne sia consapevoli o no, in Europa. E anche l’Europa è soft power anche se non sarebbe male che si dotasse di una sua difesa. Ecco perché deve dare una dimensione nuova e più convincente alla sua politica culturale. E non è solo per l’esiguità del bilancio dedicato, ma anche per lo scarso impegno politico in questa direzione che dobbiamo registrare. Le due cose sono collegate. L’alternativa è se si rifluisce in una semplice comunità di interessi tra stati-nazione o se si vuole dire una parola e influire sui grandi processi epocali in corso. Le migrazioni, l’ambiente, le crescenti disuguaglianze”.
Cosa manca all’Europa per essere credibile?
“Se si vuole esercitare davvero un soft power si deve andare all’attacco e non stare sulla difensiva. Cultura e democrazia nella dimensione italiana e nella dimensione europea sono quindi i nostri orizzonti. Nell’Ottocento si afferma la cultura degli stati-nazione come spazio in cui garantire le libertà dei cittadini. È l’impostazione di Giuseppe Mazzini. Le nazioni si dovevano affrancare dagli imperi, ma poi dovevano essere sorelle. Il Novecento sarà stato anche il secolo breve caratterizzato dai totalitarismi, ma è stato anche il secolo del welfare, dei Roosevelt, delle socialdemocrazie e dei laburismi e del compromesso da loro realizzato tra democrazia e capitalismo. Come sarà ricordato il XXI secolo? Siamo ancora nel primo quarto di questo millennio e non possiamo saperlo. Ma come sarà ricordato dipenderà anche da noi, dal nostro modo di fare cultura, di impegnarsi a capire il perché stiamo attraversando queste crisi, le loro ragioni e ad essere coerenti fino in fondo a praticare e a difendere democrazia e libertà. Tuttavia, diciamolo chiaramente, questo impegno significa non rinchiudersi, non fare agire gli istituti e le Fondazioni come monadi chiuse in se stesse, che si limitano a coltivare nomi e tradizioni del passato, ma contribuire a far sì che si aprano dialetticamente al nuovo, con gli strumenti della ricerca e del dibattito”.