Emergenza abitativa, il segreto è tornare a occuparsi di case

Firenze – Cosa succede nel grande, sterminato settore dell’edilizia popolare del Lode fiorentino, e soprattutto cosa succederà nella propsettiva della “Legge Saccardi”, che comporta un deciso cambio di passo nella riorganizzazione e nello stesso “intendimento” con cui fu creato l’Erp? Alla domanda stamattina hanno tentato di dare risposta la segretaria provinciale del Sunia Laura Grandi e il rappresentante della Cgil Massimo Brotini, accanto al candidato per la lista Sì Toscana Andrea Malpezzi. Presenti all’incontro anche rappresentanti dell’autogesione delle Piagge e semplici cittadini.

L’incontro è stato aperto con quella che si può definire la “domanda delle domande”, scatenata dalla pubblicazione dell’ultimo bilancio in utile di Casa spa, l’ente gestore del Lode fiorentino: un utile di 528mila euro, considerato dalla maggioranza delle persone in affitto nelle case popolari, un “vero schiaffo” a condizioni abitative che spesso, specialmente nei lotti più vecchi, ma anche in alcuni consegnati da pochi anni, rasentano l’intollerabilità. “Dove vanmno questi soldi? Perché a noi dicono che no cisno, per esempio per rincollare il pavimento, o per risistemare le tapparelle?”. Ebben,e come spiega Laura Grandi, “il meccanismo non è semplice, in quanto quei soldi vanno ai Comuni i quali decidono secondo le priorità dove impiegarli. Ma una somma come quella resa nota non è per niente bastevole considerando che è spalmata su tutti i comuni, (38) del Lode.”. Insomma, i soldi sono pochi e le richieste di impiego molte. Anche se resta da spiegare come quei soldi rimangano, al netto ad esempio delle manutenzioni. E qualcuno allora dice chiaro e tondo che, quando le manutenzioni non si fanno, allora è chiaro che i soldi rimangono: non vengono spesi.

Polemica gratuita, risponde qualcun altro, il vero problema è un altro ancora. E lo spiega Massimo Brotini: “La questione si pone in questi termini: se passa l’idea che il sistema Edilizia popolare è in grado di autofinanziarsi, allora è più facile far passare l’altro principio, vale a dire che soldi pubblici, nell’edilizia popolare , non si devono più mettere”. Un a questione che è già realtà da un bel po’, almeno da quando sono stati raschiati i fondi del barile Gescal, vale a dire quel fondo che gli stessi lavoratori “pagavano” con prelievi sul proprio stipendio in un piano di solidarietà verso i lavoratori più “deboli”. E i soldi che sono stati messi ad esempio dalla Regione?

Qui la questione si fa più complessa, in quanto, per essere veramente efficaci, come spiegano Grandi e Brotini, devono rispondere a due requisiti: 1) essere finalizzati all’edilizia popolare tout court, evitando inutili spese in sistemi che alla prova dei fatti, vuoi per questione culturale vuoi per impreparazione di cittadini, amministratori, imprese si sono rivelati grosse investimenti di denaro pubblico senza ritorni efficaci sulla fame di case a prezzi accessibili, come il social housing; 2) la fonte deve essere certa e continuativa. Insomma, no ai grandi investimenti una volta per tutte, sì a gettiti magari anche molto minori, ma certi e continuativi.

Un momento: e la nuova legge, nota col nome “Legge Saccardi”? Enormi punti di criticità, dicono all’unisono Brotini e Grandi: in primo luogo, saltata la trasparenza nei criteri di assegnazione, quello che si comprende stringendo è che nessun lavoratore seppure in disagio forte a livello economico, ma neppure nessun disoccupato di lungo termine che per disgrazia si ritrovi con un ottavo di casa in eredità o con un qualche soldo seppur precario, potrà più accedere all’abitazione popolare. “Non occorre essere poveri – dice Grandi – di più: occorre non avere niente di niente ed essere residenti in regione per almeno 5 anni, il che in momenti di grande flessibilità lavorativa come gli attuali, è un racconto mal fatto”. Con un’altra conseguenza: “Chi è dentro è dentro è chi è fuori è fuori – incalza Grandi – nel senso che chi è già assegnatario e viene beccato con la famosa casa al Forte dei Mermi, subisce un innalzamento del canone, mentre chi è con l’acqua alla gola fuori “dalla porta”, lì rimane, dal momento che con i nuovi criteri non esiste la possibilità di avere un’assegnazione”.

Fino a un certo punto. Infatti, e lo spiega Brotini, “un altro bacino di persone “agevolate” nell’assegnazione delle case popolari avanza con questa legge: è l’enorme richiesta che viene ad esempio da famiglie con un membro disabile psichico o fisico”. Insomma questa presenza dà quel punteggio necessario a scavalcare chi è in fila per motivi “solo “ economici, oltre a agevolare l’accesso al bando.

“Questo in realtà comporta una svolta molto interessante – dice Brotini – che è la seguente: si passa dall’intendere il patrimonio case popolari come un mezzo per l’emancipazione del lavoratore più debole, legato al concetto della sacralità del lavoro, a un intendimento totalmente diverso, che guarda alle case popolari come mezzo per mettere una toppa alla richiesta enorme che viene dal mondo delle disabilità e del disagio sociale tout court”. Insomma da strumento di eguaglianza sociale agganciata al lavoro, la casa popolare diventa una sorta di riserva per il socio-sanitario. Una sorta, come dice Brotini, “di Rsa diffusa sul territorio”. Magari con meno servizi.

Conclusioni affidate a Malpezzi: “E’ evidente che siamo di fronte a un vero e proprio cambio di prospettiva e natura dell’edilizia pubblica, o almeno a un tentativo che va in questa direzione. Ritengo che i primi passi importanti sui cui assumere responsabilità politica siano, per la Regione Toscana, quelli di rimettere mano alla legge sulla casa appena licenziata per rivedere le norme ad esempio sui criteri di assegnazione, tanto per fare l’esempio più evidente. Ma è tutto un disegno che va contrastato, e lo si fa rimettendo l’accento sul lavoro e sui lavoratori. Così, l’edilizia popolare torna ad essere strumento di emancipazione per il lavoratore debole se il lavoro assume per primo centralità nell’agenda politica”.

“Non solo: alcuni strumenti possono venire utilizzati senza demonizzarli, in particolare per dare dignità alle periferie, dove si trovano di solito queste grandi soluzioni abitative che si scontrano con problematiche complesse e di vario genere. Mezzi come social housing o cohousing, che sono utilizzati con successo in molte parti d’Europa, perché non possono venire impiegati anche in queste aree? E alla fine, il primo passo non può essere che il seguente: tornare ad occuparsi di edilizia popolare. Se il “minimo sindacale” di fronte anche alla possibilità di vendere il patrimonio immobiliare, è quello di ottenere perlomeno la sua “invarianza”, tuttavia riteniamo che per dare futuro a questo strumento sia necessario giocare d’attacco, e tornare a costruire”.

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