Elogio dell’Elogio della disobbedienza civile di Fofi, saggista mai banale

Una gandhiana voce fuori dal coro: la società cambia col mutamento profondo dell’individuo

Il mezzo giustifica il fine

Goffredo Fofi (Gubbio, 15 aprile 1937) è un saggista, attivista, giornalista e critico cinematografico, letterario e teatrale italiano
Goffredo Fofi (Gubbio, 15 aprile 1937) è un saggista, attivista, giornalista e critico cinematografico, letterario e teatrale italiano. Un intellettuale vero

Bisogna leggere tutto Fofi? Non so se è necessario. Però aiuta.

A partire dai mai scordati giudizi, di qualche decennio fa, sui film proiettati nelle sale cinematografiche, pubblicati sul Venerdì di Repubblica, dove accanto ai tradizionali voti basati sulle stelline (o puntini, non ricordo, tipo da uno a cinque), era assegnato talvolta “non l’ho visto e non mi interessa’. Una guida imperdibile.

Passando dagli articoli editi sul Domenicale del Sole 24 Ore, dalla rivista Lo straniero e dai libri, di critica letteraria e cinematografica, nonché di saggistica civile e politica.

Il recente ‘Elogio della disobbedienza civile’, edito da Nottetempo, non fa eccezione. Rapido da leggere, essenziale, riprende e sviluppa le tesi su cui l’autore ha già da tempo immemore avuto modo di soffermarsi. Fra le tante occasioni, nei suoi libri ‘Da pochi a pochi’, ‘La vocazione minoritaria’ e ‘Zone grigie’.

Il mondo è andato verso altre direzioni rispetto a quella auspicata da Fofi, ‘anarco-riformista’, seguendo una definizione che lui stesso si è autoassegnata qualche decennio fa.

E l’Italia, nel bene e nel male, non è la Francia, dove il ruolo degli intellettuali costituisce ancor oggi un carattere distintivo della identità nazionale (si veda, ad esempio, il volumetto Hors-série di Le Monde, intitolato ‘Être français’, edito lo scorso mese di marzo).

Nonostante questo, la voce di Goffredo Fofi resta fra le poche distinguibili e non banali che vale la pena di ascoltare.

La copertina del saggio, edito da Nottetempo e uscito un anno fa. "Qual è la differenza tra disobbedienza civile e nonviolenza? Quando i cittadini hanno il dovere di opporsi a uno stato ingiusto e come? Goffredo Fofi ripercorre la storia dei movimenti di disobbedienza civile da Thoreau a Gandhi, dal ’68 al trentennio berlusconiano, raccontandone la nascita e la crisi, offrendo una mappa a chi oggi voglia ancora resistere. Perché l’unica via contro un potere manipolatorio e coercitivo è ancora non accettare, smettere di obbedire prima che sia troppo tardi"
La copertina del saggio, edito da Nottetempo e uscito un anno fa. “Qual è la differenza tra disobbedienza civile e nonviolenza? Quando i cittadini hanno il dovere di opporsi a uno stato ingiusto e come? Goffredo Fofi ripercorre la storia dei movimenti di disobbedienza civile da Thoreau a Gandhi, dal ’68 al trentennio berlusconiano, raccontandone la nascita e la crisi, offrendo una mappa a chi oggi voglia ancora resistere. Perché l’unica via contro un potere manipolatorio e coercitivo è ancora non accettare, smettere di obbedire prima che sia troppo tardi”

“Elogio della disobbedienza civile” è prezioso perché, in primo luogo, fornisce un rapido ma completo vademecum sul tema, partendo dalla definizione che l’autore riprende da Teresa Serra (‘una violazione intenzionale, disinteressata, pubblica e pubblicizzata di una legge valida, emanata da una autorità legittima’) e ripercorrendo la lezione di alcuni fondamentali personaggi, quali Aldo Capitini, Danilo Dolci e lo stesso Gandhi.

Fofi, parlando di disobbedienza civile, passa in rassegna più di mezzo secolo della nostra storia, con un focus particolare su quello che definisce il trentennio, cioè il periodo iniziato con il trionfo delle dottrine liberiste e con il declino della sinistra e delle sue ideologie.

Come al solito, è particolarmente duro con coloro che hanno rifiutato di contrapporsi realmente a questo andamento. Citando una frase particolarmente significativa: ‘sia chiaro che nessuno può dirsi innocente, (…) tra tutti coloro che si erano convinti di essere di sinistra solo perché un filo più a sinistra di Berlusconi o perché si sentivano tanto ribelli leggendo La Repubblica o Il Manifesto, godendosi le estati romane e la Milano dei miglioristi, ripetendo le battute dell’ultimo Benigni o dell’ultimo Moretti’.

Il libro è assai interessante anche perché illustra in modo chiarissimo uno snodo essenziale della dottrina della disobbedienza civile, facendone in qualche modo l’emblema del passaggio ineludibile che dovranno (o dovrebbero) percorrere tutte le dottrine, norme o semplici atteggiamenti che intendono mutare il mondo.

Sotto questo profilo, il valore del libro di Fofi va ben al di là del fatto di condividere o meno le tesi ivi espresse.

“L’insegnamento politico di Gandhi – metodi di lotta assolutamente limpidi; rispetto del nemico, secondo una lezione che è stata di molti, dai cristiani migliori agli anarchici migliori (si combatte il peccato e non il peccatore, le idee e le pratiche che ne conseguono e non i loro singoli portatori) – è stato di individuare un metodo che mettesse radicalmente in discussione le idee e le pratiche correnti e che, basato su convinzioni etiche o religiose, chiedesse al ribelle o al militante di trasformarsi in persuaso. Fini e mezzi la stessa cosa”.

In sostanza, il cambiamento sociale, se vuole essere duraturo, deve passare da un parallelo cambiamento dei singolo individuo.

Così come il liberismo o qualsiasi altra dottrina hanno vinto quando hanno imposto i loro stili di vita e di pensiero ancora prima di altri mutamenti e quando hanno indotto molti o quasi tutti a ritenere che questo fosse un fatto ineludibile e naturale, il passaggio a un differente assetto sociale – riprendendo un libro di qualche anno fa dello stesso Fofi: la trasformazione di una fra le zone grigie della nostra società in un modello vincente – deve transitare da una mutata consapevolezza individuale.

“Il bene perde, Gandhi e Capitini hanno perduto, il mondo non è affatto meno violento e meno diviso di ieri. Ma se non ci piace il mondo che abbiamo intorno, se i suoi modelli ci ripugnano, se la sua cultura ci deprime, se la sua violenza ci disgusta, Gandhi e Capitini hanno ancora molto da dirci, sul piano del singolo e sul piano delle società, soprattutto di chi, da solo o con altri, “non accetta” lo stato delle cose che si trova di fronte, l’insensatezza di un ordine o di un dominio, la prospettiva della distruzione finale”.

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