Si chiamava, anzi si chiama “I bei tempi dei brutti libri”, il libro che il poeta e critico letterario Giovanni Raboni fece uscire nel 1988 a compendio di una serie di scritti perlopiù giornalistici sulla presunta grandezza di osannati autori a livello internazionale e la scarsità di consenso di altri, a suo modo di vedere evidentemente più meritevoli.
La tesi, già desueta a quei tempi, era che in sostanza in Italia si scrivesse molto di più di quanto non si leggesse. E come tale si perdesse la capacità comparativa e, udite udite, paragonativa, la sola utile a distinguere la qualità di un prodotto in questo caso intellettuale. Ma se oggi il Raboni fosse ancora vivo, come titolerebbe un nuovo eventuale scritto sull’evoluzione degli scrittori ed i meccanismi dell’industria culturale italiana? Non possiamo saperlo per evidenti ragioni ed allora un titolo lo azzardiamo noi: “I tempi squallidi dei libri inutili”.
Sì perché oggi il problema del rapporto tra poca lettura e molta scrittura è sorpassato in curva a destra da una metamorfosi collettiva: si pubblica molto di più di quanto si scriva. Ovvero il profluvio quotidiano di riviste, pubblicazioni, libri, volumi, che escono a detrimento delle foreste amazzoniche deforestando il patrimonio verde del nostro splendido pianeta, ha come obiettivo di tutto tranne quello di fare bella letteratura, divulgazione, confronto. Tutti pubblicano, in modo più o meno professionale, più o meno artigianale, grazie anche (sarebbe meglio dire a causa anche) della facilità con cui il web mette in rete le produzioni di ciascuno, e nessuno più scrive. Un popolo un tempo dove spiccavano alcuni scrittori e che oggi pullula di scriventi, anzi di pubblicanti replicanti. Ed i critici che fanno? I critici chi? Non esistono più e per come si sta indirizzando il consumo di carta stampata e no, non avrebbe nemmeno senso. Chi passa ancora attraverso case editrici di medio livello e non si affida alla pubblicazione immateriale (ma è solo questione di tempo), rimane in un circuito talmente ristretto ed angusto, composto dal solito gruppo di amici che lo acclamano più a fini di innalzamento della stima che altro, che gli basta ed avanza. La pubblicazione del tuo libro come moderna terapia antidepressiva e rivincita sugli eventuali fallimenti esistenziali e/professionali. Questo è: un’enorme terapia filologica di gruppo, ciascuna però coltivata nel rispettivo orticello social, in quella comfort-zone dove non deve arrivare il giudizio di esterni.
Un altro sicuro indice dell’inutilità dello “scrivente” di turno, fateci caso, è la lunghezza del prodotto. Magari quando Lucrezio componeva il poema “De rerum natura” o Galileo metteva mano al “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, cioè quando disciplina umanistica e scientifica ponevano le basi del loro ordinamento, il dipanarsi di pagine e pagine poteva riscontrare la necessità dei vuoti storici dei tempi. O quando Proust dava vita ad opere monumentali quali “Alla ricerca dl tempo perduto”, Victor Hugo a “I miserabili”, Dickens a “Il Circolo Pickwick”, Tolstoj a “Guerra e pace”, Dostoevskij a “I fratelli Karamazov” e via discorrendo, cioè quando i romanzi nell’800 hanno raggiunto, per una serie di circostanze sociali e culturali, il picco della qualità in grande parte d’Europa, e la concorrenza di altre possibilità di svago colto era ridotta al lumicino, la mancanza di lunghezza sarebbe stata deplorevole. Ma oggi, oggi che si propalano migliaia di volumi quotidiani, che si è immersi in un’interconnettività spasmodica, che abbiamo alle spalle oltre 5mila e 500 anni dall’invenzione della scrittura in Medio Oriente, Egitto, Cina e America precolombiana, a quasi 680 anni dall’invenzione della stampa a caratteri mobili dei Gutenberg, che i nostri spazi di possibilità di godimento di piacere culturale sono pressoché esauriti, che la concorrenza di input mediatici in una selva di fonti ed espressioni di impossibile decrittazione è divenuta selvaggia; in tutto ciò, c’è qualcuno che possa pensare seriamente di produrre corposi tomi per un pubblico esistente? Se sì, i casi sono due: o è un totale sprovveduto od un grande presuntuoso. Perché sarebbe già un miracolo confezionare una pagina originale, non diciamo un libro, una pagina. Alcune righe che già non siano state scritte e riscritte, immagini che già non siano state usate e riusate, storie che già non siano state raccontate e rinarrate all’infinito.
Ci sia consentito in chiusura un aneddoto memoriale personale: ai tempi del liceo si passavano mediamente 5-6 ore al giorno chini sulle traduzioni dal greco e dal latino, immedesimandoci nelle “sudate carte” come dei Leopardi povericristi di campagna. Si maneggiavano vocabolari di svariati chilogrammii l’uno, anche perché il greco antico sciorina spesso parole che nella nostra lingua possono avere anche diverse decine di significati e che ci imponeva uno sforzo fisico e mentale non indifferente. Passaggi di sinapsi, nel delicato gioco ad incastro di teso, contesto, intuizione, logica, deduzione e seduzione, statistica e fantasia, “tutti quei momenti – che – andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”. Perché i clic compulsivi su wikipedia et similia bypassano un tesoro di operazioni cognitive sconosciute alle nuove generazioni. Abituate come sono, beate loro nativamente digitali, ad avere sottomano ogni tipo di soluzione bastevole di una scrollata senza troppa fatica d’apprendimento. Ma così perdendo potenzialità ed esperienze intellettive per la rarefazione delle quali, schiere di neurolinguisti da anni lanciano l’allarme.
Un depauperamento aumentato dalla scomparsa di centinaia di vocaboli all’anno (causa anche il “politicamente corretto” che infesta la vita pubblica) e particolarmente coglibile nella produzione libresca degli ultimi anni, dove l’opera un tempo dell’ingegno, è ormai ridotta a raffica di banali riproduzioni di cliché, schemi narrativi da primati e svolgimenti telegrammatici. Da temino di esame elementare. Insomma un diluvio di libri e pubblicazioni scipite, vuote, senz’anima intellettuale né meta culturale, destinate al non consumo: diffidate di chi non fa passare dai 10 ai 15 anni almeno tra un volume e l’altro. Vuol dire che ha dato vita ahinoi, a pagine già scritte, già lette, già viste e/o di rara insipienza. Fermate le rotative, vi prego, prima vorrei scrivere!