Finite le vacanze, o quasi, si ricomincia a pensare all’economia. Come va? Insomma tanta incertezza, potremmo dire. E l’incertezza è nemica della crescita. Ci sono macigni che continuano a ingombrare la strada. Il primo fra tutti, grosso e drammatico dal punto di vista umano prima che economico, è la guerra in Ucraina. Purtroppo i segnali di distensione non ci sono e se ci sono, qua e là, sembrano molto, troppo, lievi e mal governati da chicchessia. E la guerra in Ucraina, vuol dire tensione sulle fonti energetiche e sulle fonti alimentari. Due dei settori da cui è partita inizialmente la spinta inflattiva mondiale e da cui può sempre venirne una nuova.
Certo il tasso di inflazione generale sembra in fase discendente a scala globale, dall’8,2% del 2022 al 6,8% nel 2023 e quindi al 5,2% nel 2024 ma la cosiddetta “inflazione core”, quella che si fonda su beni i cui prezzi sono meno volatili, sembra più refrattaria a scendere. C’è una certa resistenza, anche perché tutti i soggetti che possono “lucrare” in qualche modo sull’inflazione non si fanno pregare a farlo. Per questo e altri motivi le Banche centrali è facile che non molleranno troppo le politiche antinflattive alla prima decelerazione e graveranno ancora con la politica dei tassi alti sui ritmi di crescita. Anche perché tassi alti che resistono e inflazione che decresce vuol dire, in economia, tassi reali crescenti. Che sono quelli che fanno più male alla tenuta dei conti delle imprese.
Questo è il primo punto rilevante dell’attuale situazione economica. L’inflazione va fermata, bisogna che non si inneschino all’interno meccanismi di autosostegno del tipo salari-prezzi o profitti-prezzi e bisogna che le Banche centrali sappiano condurre un delicato “fine tuning” per non cedere sull’inflazione ma anche per non dimenticarsi dell’importanza della crescita. Importante in sé ma anche ai fini della stabilità della moneta. Non sarà facile. E non aiuteranno né i “falchi” tedeschi o degli altri paesi “frugali” e neppure i “sovranisti denoantri” che vorrebbero usufruire della forza dell’euro ma continuando ad esercitare “ad libitum” una quasi completa sovranità monetaria. Insomma due posizioni ahinoi fortemente presenti in Europa ma completamente incapaci di dare un sostegno alle politiche europee di ampio respiro. Il “di più” dell’Italia di questi ultimi anni rispetto all’area euro è destinato a rarefarsi nel 2024 ma più che altro si prospetta per l’anno in corso e per il prossimo anno una crescita intorno ad un modesto 1% (1,1% e 0,9%). Insomma l’Italia sembra rientrare nel solito tran tran con bassa crescita e con difficoltà di gestione di un Bilancio sottoposto ad un maggior costo in termini di interessi passivi e spinto dalle politiche europee a rientri, più o meno draconiani si vedrà, verso un maggior equilibrio strutturale.
La ripresa dell’inflazione di questi anni poteva essere utilizzata in qualche modo per cominciare a sistemare il peso del Debito. Ed invece è stata utilizzata come le “bollicine della coca cola”: un influsso inebriante per aumentare la spesa pubblica corrente o similcorrente (la spesa per bonus e regali alle famiglie) come strumento banale, ma ottimo, per la ricerca del consenso politico a breve.
E, a forza di guardare a breve, l’Italia si trova ora in un “pantano”. Dal Bilancio dello Stato è difficile trarre risorse per qualsiasi tipo di politica. Le acrobazie e le esternazioni del Ministro Giorgetti di questa fine estate sono esplicite e di facile lettura: “non c’è trippa per gatti”. Certo nella “retorica” di questo governo, peraltro molto simile a tutti i governi a guida populista che si sono susseguiti in questi anni, rimane la metafora del “paese schiacciato dalle politiche europee”, che altrimenti volerebbe nello spazio economico globale con le sue produzioni insostituibili. Intendiamoci cose che ci sono e vanno mantenute, ma che nel sistema complessivo sono meno importanti di quanto si creda. E’ ora che il paese faccia i conti con i problemi di lunga tenuta e cominci a pensare ai prossimi decenni. Trovando consenso in un disegno forte e condiviso per il futuro e non in regali e regalini per l’oggi.
La situazione è chiara. Più volte analizzata e rappresentata con dovizia di dati. L’Italia ha un motore economico significativo, di qualità (basta vedere l’andamento dell’export anche in questi ultimi scorci di anno), ma limitato territorialmente e tendenzialmente con tassi di innovazione meno dinamici rispetto ai partner globali avanzati.
Di questo motore fa parte anche il turismo ma anche questo troppo fondato su alcune posizioni monopolistiche delle città d’arte e poco innovativo nelle aree più competitive. Alcuni segnali di difficoltà di questa estate nel turismo marino e montano, in concorrenza con altri paesi del mediterraneo, di fronte a prezzi immotivatamente crescenti non sono da prendere sottogamba.
Questo motore da solo non può bastare a “mantenere” il resto del paese col suo welfare evoluto e con le sue sacche di rendita diffusa e i suoi vuoti di attività economica avanzata. E allora la scelta è chiara e non può essere rimandata: o il motore cresce e si rafforza o l’Italia dovrà subire un processo di “declassing” rispetto alla parte più avanzata dell’Europa.
E per far crescere il motore, in quantità e qualità, le medicine sono ampiamente conosciute:
- Intanto deve crescere, o almeno non diminuire, il potenziale umano del paese in termini di popolazione e di forza lavoro. E’ evidente che “senza un debito eccessivo” si potrebbe tentare anche la più comoda strada della decrescita demografica felice. Con problemi di invecchiamento non semplici ma trattabili. Con un debito come quello italiano tale via è preclusa. E allora ripresa demografica e immigrazione ordinata e ben gestita sono le uniche alternative possibili da non vedere in concorrenza ma come contributi convergenti. In questo contesto cercare di ridurre l’attività di lavoro degli anziani, spesso portatori di competenze ed esperienza, a favore di posti di lavoro per giovani è una “favola per bambini” che purtroppo fa danni al paese.
- Quindi deve crescere l’imprenditorialità, la spinta produttiva, la voglia di crescere e di impegnarsi. Basta con l’idea che l’Italia deve “soltanto” mantenere. Una visione un po’ da “pensionati benestanti” in cerca di pace e di riposo. Bisogna rinnovare e rilanciare, su forme nuove e con strumenti nuovi, la volontà di fare che è stata alla base dello sviluppo economico e sociale dei nostri padri e madri nell’Italia del dopoguerra. E lo Stato deve aiutare e incentivare chi vuole fare e non chi vuol solo mantenere le proprie posizioni e talvolta i propri privilegi.
- Ed infine, à la Carli, il paese si deve via via liberare dei “lacci e lacciuoli” che lo tengono fermo. Più libertà e liberalismo in economia, meno rendite e interessi acquisiti e più spazio all’innovazione di tutti i tipi e forme: da quella organizzativa, dei materiali e dei prodotti, delle tecniche e tecnologie e delle modalità di distribuzione. C’è un mondo che sta cambiando “là fuori”. Si tratta soltanto di aprire le finestre e far entrare aria nuova.
Con questa premessa è chiaro il disegno che necessita nella “manovra autunnale” del Governo. Meno spesa pubblica corrente e meno regali e regalini alle famiglie. Più spese di investimento a favore del rafforzamento infrastrutturale del paese ed in particolare a supporto dell’adattamento agli effetti del cambiamento climatico. Interventi a favore della crescita imprenditoriale legata alle nuove tecnologie e all’innovazione e rafforzamento tecnologico delle imprese. Ed infine tante tante “riforme” per liberare il paese. Lo dico apertamente: di fronte a un paese che evade per 100 miliardi e se ne sta immobile nelle sue “certezze”, sempre meno tali, è da preferire nettamente un paese che rischia, investe e intraprende e che magari alla fine realizza gli stessi 100 miliardi di evasione. Ciò che ci uccide è l’immobilismo e la difesa di interessi consolidati. A parità di “disordine” è preferibile un disordine creativo rispetto ad un disordine che alimenta un mortifero status quo.
Vediamo se Meloni e il suo Governo sapranno mettere in campo un po’ di “coraggio” e di “visione lunga”. Oppure penseranno soltanto, come gli altri governi, solo alle prossime elezioni.
In foto il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti