La prima qualità del Progetto Ligabue è sicuramente quella di imporre, con tutta la forza che l’arte teatrale sa costruire, un coinvolgimento del pubblico, per indurlo a diventare soggetto protagonista della vita e delle esperienze dello stesso Ligabue (Antonio, non Luciano. Diciamolo che qui nel reggiano la confusione è dietro l’angolo).
Il progetto ha proposto tre separati percorsi, due nella bassa tra Guastalla e Gualtieri e il terzo a Reggio Emilia ed è proprio quest’ultimo quello a cui ho assistito io. Tre performance che, con differenti strumenti comunicativi hanno raccontato un pezzo della storia del Toni, nel mio caso le sue paure, le sue paranoie e le consapevolezze.
Uno spettacolo, questo, molto complesso per quanto concerne l’organizzazione e la progettazione, ricco di figure, musiche, luoghi, scene ed evocazioni, che intende spingere con forza sul pedale dell’empatia e dell’immedesimazione del pubblico. Gran gioco fa, insieme al gran numero di attori e comparse coinvolte, la scelta dei luoghi. Di certo a caratterizzare il percorso da me scelto, la struttura del Padiglione Lombroso, l’ormai dismesso padiglione dei “furiosi” psichiatrici in cui il protagonista trascorse, in diverse sessioni, parti della sua vita, è di per sé uno spettacolo allucinante, ricreato per lo spettatore nella realtà quotidiana.
Pazzi, schizofrenici, paranoici, ritardati circondano lo spettatore fin dal suo ingresso nel padiglione a gettarlo di forza, rinchiuso lui stesso, nella realtà borderline e paranoica del manicomio.
Il “Dottore” introduce all’esperienza, raccontando la peculiarità del paziente che si andrà ad incontrare, le sue evidenze cliniche, la sua peculiarità artistica, di cui si riconosce il valore anche tra quelle mura.
E poi si entra nella cella del Toni, lo si incontra faccia a faccia e si è costretti a parlarci e a interagirci, a conoscerlo con i suoi salti d’umore e la sua follia spaventevole e bonaria, a conoscere la sua sofferenza umana, quella di una inquietudine nascosta nel fondo di tutto il genere umano, a osservare il passetto che ci divide dal baratro della anormalità.
La danza dei matti accompagna tutti sui pullmann per la trasferta a Gualtieri, ad assistere al funerale del Toni. Nel frattempo, durante il viaggio, alcune pagine di testimonianze e documentari, raccontano i sentimenti, la solitudine, il bisogno d’amore del matto Toni, finanche al suo successo, la fama raggiunta negli ultimi anni di vita.
Una banda accoglie il pubblico a Gualtieri e lo accompagna in piazza Bentivoglio in una carovana felliniana, con tanto di gualtieresi alle finestre un po’ basiti e incuriositi dalla visione. E si termina l’immersione nella vita e nella follia di Toni col suo funerale, tra musiche e canti struggenti.
La vita di Ligabue ha moltissimi spunti teatrali. Quasi da copione la follia si unisce al genio, la violenza dei sentimenti alla dolcezza del temperamento, llo struggente bisogno di amore. E questo spettacolo, almeno per la parte vista (che significa un terzo del quadro generale) pesca a piene mani in questo patrimonio di vita unica, dolorosissima e folle.
E pur riuscendo a tratti nell’intento di trasformare lo spettatore in un attore a sua volta, partecipe delle esperienze delle ansie, delle manie e delle convinzioni del Toni, forse, volendo proprio essere pignoli, si rischia di calcare la mano, di spingere troppo sull’acceleratore e proprio alla ricerca del pathos a tutti i costi, di perdersi un po’.
Perdersi negli spostamenti, nelle attese, nei balletti, nei documentari. Parti di spettacolo che non si sentono essere molto funzionali al racconto in sé ma alla costruzione di un coinvolgimento, alla “rotondità” della esperienza del pubblico, alla necessità di tenere sempre impegnato lo spettatore all’interno della storia.
Credo che l’esperienza finale dello spettacolo sia buona e bella, certamente coglie l’obiettivo di approfondire la conoscenza del personaggio in maniera inedita e multilinguistica e multisensoariale.
Le uniche pecche stanno in qualche sbavatura non proprio di primo piano – nella cadenza degli attori pazzi che accompagnano il percorso del Lombroso, che accostano in maniera un po’ forzata la dizione attoriale agli intercalari cari alla parlata locale, solo per fare un esempio – .
La perfezione, nelle arti come nelle scienze, sta in gran parte nel rendere qualcosa di difficile e complicato in maniera semplice, elegante, sintetica, diretta, senza sbavature né discorsi prolissi. Farla sembrare facile. Come la formula della relatività di Einstein – piccola, perfetta, bellissima- o come l’arte barocca, che cela le fatiche strutturali dietro costruzioni lievi ed aeree.
Qua e là, in questo spettacolo, si coglie la trama elaborata e complessa dell’esperienza. Il dialogo, la sceneggiatura, non risplende di divina compiutezza ma a volte perde un po’ il senso di coesione e coerenza.
Difetti che tuttavia non ne fanno un’opera minore, che proprio per il sui grandissimo sforzo, per il suo grande coinvolgimento e sfarzo, merita di essere vissuta.