Firenze – Tra gli ambiti della delega al governo, si presenta il varo del reddito di inclusione (Rei), che prenderà il posto del Sia (sostegno per l’inclusione attiva sotto forma di carta prepagata), uno strumento che verrà caratterizzato come livello essenziale di prestazione e che sarà dunque unico a livello nazionale e soggetto a un monitoraggio stretto da parte di una “cabina di regia” nazionale.
La misura è articolata in un beneficio economico e in una componente di servizi alla persona, assicurati dalla rete dei servizi e degli interventi sociali.
Per la componente economica, è previsto un limite di durata, con possibilità di rinnovo, subordinato alla verifica del persistere dei requisiti, ai fini del completamento o della ridefinizione del percorso previsto dal progetto personalizzato.
A fine 2017 il Rei dovrebbe arrivare a una prima platea di 400mila famiglie e avrà un valore simile al Sia, fino a un massimo di 400 euro al mese. Sarà il decreto attuativo a stabilire se sarà erogato sotto forma di carta prepagata o in altre modalità.
Il reddito di inclusione ha come priorità le famiglie con bambini in povertà assoluta. L’accesso al Rei sarà un aiuto condizionato alla prova dei mezzi (serve un Isee non superiore ai 3mila euro associato a un livello di reddito effettivo disponibile che sarà fissato nel decreto legislativo), un aiuto che scatterà solo con l’adesione del capofamiglia a un progetto personalizzato di attivazione e inclusione sociale e lavorativa predisposta dall’ente locale.
La persona, dovrà impegnarsi, per esempio, a garantire un comportamento responsabile, ad accompagnare i figli a scuola, a sottoporli alle vaccinazioni e ad accettare eventuali proposte di lavoro.
La delega prevede inoltre la razionalizzazione di altre prestazioni assistenziali (fatta eccezione per le prestazioni rivolte alla fascia di popolazione anziana non più in età di attivazione lavorativa, per le prestazioni a sostegno della genitorialità e per quelle legate alla condizione di disabilità e di invalidità del beneficiario) come la vecchia carta sociale per minori e l’assegno di disoccupazione Asdi, e il rafforzamento del coordinamento degli interventi in materia di servizi sociali, al fine di garantire in tutto il territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni.
Il disegno di legge del ministro Poletti non è esente da appunti, le misure contro la povertà varate con le ultime leggi di finanza pubblica, a mio parere, sono largamente insufficienti a garantire tutti coloro che oggi vivono in una condizione di povertà e non si pongono l’obiettivo di trovare strumenti strutturali e universali di lotta alla povertà nel medio e lungo periodo.
L’impressione è che tali misure costituiscano solo una rimodulazione di strumenti già esistenti, non un welfare più inclusivo ma solo uno spostamento di risorse da una platea all’altra.
Appare del tutto evidente l’impossibilità di configurarle come un reddito minimo, essendo gli stanziamenti assolutamente insufficienti persino a coprire l’intera platea di persone in condizioni di povertà assoluta, e dunque, a maggior ragione, quelle in povertà relativa, compresi disoccupati, inoccupati, Neet e working poors”.
Riprendendo il ragionamento sulla strategia per combattere la povertà e per una valutazione sul concetto di equità sociale, da considerare un obiettivo che un Paese deve perseguire per essere più competitivo, cito alcuni dati esemplificativi.
Da una ricerca (Vogliotti, S. Vattai, Modelli di Welfare state in Europa) che valuta l’equità sociale dei diversi sistemi di welfare nell’Ue, emerge come l’Italia si collochi al 23° posto su 28. A questo riguardo, significativo risulta anche l’Inclusive Growth and Development 2016.
L’analisi considera 112 Paesi, di cui 30 avanzati. Quest’ultimo è l’ambito di riferimento per uno Stato come il nostro. Al suo interno, in relazione ai vari indicatori, la posizione ottenuta dall’Italia si trova tra le ultime 10 e per alcuni persino tra le ultime 5. Nello studio si rivela: “Il sistema di protezione sociale, che non è né generoso, né efficiente, aumenta il senso di precarietà e di esclusione del Paese”. Il World Economic Forum, dove questo documento è stato presentato, rimarca come le nazioni più inclusive siano anche quelle più competitive. In fatto di competitività, all’Italia viene assegnato il 27° posto in graduatoria.