Dicono i librai che la lettura della poesia è ultimamente cresciuta specialmente fra i giovani. Anche questo, parliamo parliamo oggi di due poeti, accomunati da diverse simiglianze.
I poeti sono il grande Mario Luzi e Pietro Bigongiari. Erano nati nel 1914 – cioè cent’anni fa precisi – e sono scomparsi non troppo tempo fa. Tutt’e due sono toscani, Luzi è infatti di nascita fiorentina; d’origine pisana (Navacchio) è invece Piero Bigongiari che però trascorse la vita e i suoi fantasmi tra Pistoia e Firenze. Tutti e due sono poeti, di diverso esito, e tutti e due cresciuti in quella stagione letteraria significativa che fu l’ermetismo e che ebbe Firenze per centro.
Luzi era alto magro schivo. Ha vissuto per molti anni solo in un quartiere di Bellariva, a due passi dall’Arno dove andavo a trovarlo: stile quasi monacale, pile di libri sul pavimento e sul tavolo una piccola foto della madre.
Solo ultimamente, vale a dire quando era verso gli ottant’anni, lui che è morto novantunenne, la sua fama prima viva e ristretta ai circoli intellettuali, si è aperta all’apprezzamento popolare ma anche internazionale se a lungo, invano, ci si aspettava che egli ricevesse il premio Nobel per la letteratura. Fu invece fatto “senatore a vita” e si affacciò appena al Parlamento italiano. Oggi Luzi sta in tutte le antologie, i giovani frequentano la sua poesia e, dopo Montale, è forse il poeta di punta del secondo Novecento non solo italiano.
Luzi si è formato, s’è detto, nel clima dell’ermetismo fiorentino. Fiorito sotto il fascismo negli anni ’30 e ’40 questo movimento tendeva a trascurare la realtà storica e politica del proprio tempo (con il quale era silenziosamente in conflitto), per assegnare alla poesia un compito totale e decisivo, quello, attraverso la parola pura e assoluta, di rinominare il mondo e creare una bellezza che stava fra le memorie del passato e una utopica speranza dell’avvenire. Fu detta poesia pura che però nei maggiori, quando tese a una sterile autoreferenzialità, fece posto a un maggiore impegno con la realtà (si pensi per Luzi nel ‘Magma’) e ha un’attenzione verso l’assoluto.
In Luzi domina anche una forte fede spirituale e cristiana, mai agiografica ma capace di illuminare opere e pensieri (fu papa Giovanni Paolo II ad affidargli i testi di lettura per la Via Crucis di una Pasqua non lontana).
Il passaggio degli anni, come sempre galantuomo, fa giganteggiare la sua presenza di grande intellettuale ma soprattutto la sua voce di poeta.
Dell’ermetismo si è accennato, in esso sta di diritto anche la poesia di Piero Bigongiari. Non a caso ebbe compagni fraterni i poeti Alfonso Gatto e lo stesso Mario Luzi, tutti al quotidiano appuntamento al caffè fiorentino delle Giubbe Rosse, accanto al grande Rosai e, di passaggio, a Montale, Vittorini e altri.
Fra le sue raccolte più significative ‘La figlia di Babilonia’ (1942), ‘Le mura di Pistoia’ (1958) e ‘Torre di Arnolfo’ (1974). Anche per Bigongiari la parola fu tutto.
Bigongiari ebbe due città dell’anima: Pistoia e Firenze. A Pistoia abitava in una palazzo con un grande scalone secentesco al numero 5 di via del Vento , all’ombra della Madonna dell’Umiltà. Poi tutta la maturità a Firenze in piazza Cavalleggeri: una casa inondata di luce sull’Arno dove andandolo a trovare rivedevo una spledndida collezione di quadri secenteschi, il secolo artistico fino allora trascurato, alla cui riscoperta Bigongiari contribuì con finissimi saggi. Egli era anche un provetto francesista e un ottimo traduttore, poi sempre presente sulle riviste maggiori dall’antico e fiorentino ‘Campo di Marte’ a ‘Corrente’ a ‘Paragone’ longhiano.
Grande nell’aspetto e gioviale nel sorriso intelligente, Bigongiari illuminò con discrezione ma con costante presenza la vita culturale italiana attraverso queste città.
Forse è l’ora di riprendere in mano le maggiori raccolte dei due poeti di cui qui si è dato notizia. Luzi è anche troppo noto nei suoi titoli. Chiudiamo allora con alcuni versi difficili ma luminosi del prezioso Bigongiari: “O memoria, la terra è il tuo ritorno/ negli occhi, le magnolie/ in un torno di gridi dai cortili/ traboccano”, e ancora: “Abbandònati a questo inconsistente/ pulviscolo di cose e di pensieri/ abituati all’inferno dell’effimero”