Il titolo dell’ultimo volume di «Testimonianze» , la rivista fondata da Ernesto Balducci ha la forma di una domanda: Dove va la «Terra del tramonto»? Politici, politologi, storici, intellettuali cercano di dare una risposta a questo interrogativo che si è riproposto con urgenza a causa delle crisi sempre più ricorrenti dovute tanto all’attività avida e incessante di sfruttamento delle risorse naturali quanto allo stesso riapparire minaccioso del pericolo nucleare per fortuna ancora al loivello ipotetico. Severino saccardi, direttore della rivista, spiega le finalità che lo hanno indotto a progettare l’ultimo quaderno di Testimonianze.
Intanto, va ricordato che La Terra del tramonto è il titolo dell’ultimo, grande, libro, di Ernesto Balducci. Durante questo anno, ne abbiamo ricordato il centenario della nascita e il trentennale della scomparsa. Un anno ricco di iniziative, di eventi dedicati a riproporne la memoria e a riflettere sull’attualità della sua lezione. È anche in questo clima e in questo contesto che nasce il volume. Un volume che, a partire da una pluralità di contributi (che evidenziano anche diversità di analisi, di sensibilità, di punti di vista), intende porre in evidenza e al centro dell’attenzione una questione cruciale: quella relativa al destino dell’Occidente (che è terra del tramonto, per definizione, e che, secondo Hegel, come ricorda Claudia Mancina nel suo intervento, è «assolutamente la fine della storia del mondo, così come l’Asia ne è il principio»). È una questione complessa e. dunque, le risposte non sono univoche.
Più volte, sulle pagine della rivista, viene citato Spengler. È davvero, come diceva questo pensatore, più di un secolo fa, una civiltà in decadenza o in declino, quella occidentale?
Quasi tutti gli autori, per un verso o per un altro richiamano Oswald Spengler e le sue posizioni relative al declino dell’Occidente. La Terra del tramonto sarebbe anche una civiltà che va verso il suo tramonto. Ma c’è chi fa notare che la nostra società (che pure è segnata da evidenti manifestazioni di crisi, sul piano della tenuta sociale, a livello politico-istituzionale e, verrebbe da dire, anche a livello antropologico), con il suo modello economico e con i suoi (buoni e meno buoni) stili di vita ha permeato di sé il mondo. E Roberto Barzanti richiama espressamente, e passa in esame, le tesi di Aldo Schiavone che, nel suo ultimo libro, L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria (Il Mulino, 2022), richiama l’immagine ed evoca la dimensione di un «Occidente-mondo».
Che cosa si intende per «Occidente- mondo»?
Per «Occidente-mondo» si intende il mondo, appunto, che si è globalizzato (e che sta diventando una «civiltà planetaria», con un termine che era caro anche a Balducci, come lo stesso Schiavone mette in evidenza) sotto il segno e seguendo le modalità di un unico modello. Quello economico (del capitalismo finanziario) e tecnologico, che è il prodotto della storia dell’Occidente e che ha permeato di sé, a vari livelli, l’intero pianeta e l’insieme della comunità umana nell’età dell’interdipendenza. Ma alla «globalizzazione» di tipo economico e alla capacità di attrazione della dimensione tecnologica (che valgono ovunque) non si accompagna, affatto, l’accettazione condivisa della democrazia, dei diritti umani e dello stato diritto. Anzi (anche se non ne va data una lettura ideologica), nel nostro tempo, è evidentemente in corso una sfida, drammatica e carica di tensione, fra democrazia e autocrazia.
E si tratta, come ricorda l’intervento di Valdo Spini, di una sfida globale. La guerra d’Ucraina e la rivolta delle donne e dei democratici iraniani ce ne danno palmare evidenza. Da segnalare, al riguardo, che il volume si apre con un testo di Francesco M. Cataluccio dedicato al «caso Ucraina» (Conoscere la storia per capire il presente) e con un articolo di don Ermis Segatti, grande conoscitore del mondo ortodosso e dell’Europa dell’Est, su La «grande Russia», la guerra in Ucraina e la lacerazione delle chiese ortodosse.
A proposito della «sfida globale» che sarebbe attualmente in atto per l’egemonia nel processo di «mondializzazione», autocrazie e fondamentalisti non avrebbero possibilità reali (questa è almeno la tesi di Schiavone, discussa nel volume) di prevalere (sulle democrazie) per l’eccessiva rigidità, la mancanza di flessibilità e di adattabilità dei modelli politici e culturali da loro proposti e propugnati. Naturalmente, è una tesi che si può discutere e che, temo, possa rivelarsi «ottimistica». La congiunzione di efficienza economica e decisionismo autoritario (Cina docet), agli occhi di molti, ha anche un certo, e insidioso, appeal. Anche se le recenti manifestazioni, in Cina, contro il carattere eccessivamente rigido delle misure «zero Covid» fanno suonare un campanello d’allarme per la solidità del regime di Xi Jinping.
Nel volume, d’altra parte, viene ribadito che il termine «Occidente» non va inteso nella sua accezione più strettamente geografica, mi pare. Vogliamo chiarire questo aspetto?
Sì, è un concetto che è più volte ripetuto. Ne parla con efficacia Marco Mayer, ad esempio. Quando si parla di «Occidente» non ci si vuol certo riferire solo all’ Europa più gli Stati Uniti e il Canada (che sono culturalmente una derivazione della «casa europea»). Il pensiero va anche a paesi (geograficamente lontanissimi dall’ Occidente) come Australia o Nuova Zelanda o anche ai paesi asiatici retti da regimi democratici. E poi l’Occidente, nei suoi aspetti migliori (i valori di libertà e democrazia) vive (come ha detto Adriano Sofri, che cito nel mio testo) in qualche modo, nelle lotte di chi vuole scrollarsi di dosso l’oppressione di regimi tirannici, come il popolo iraniano. Paradossalmente (lo ricorda Vannino Chiti), la democrazia conosce momenti di stanchezza ed è segnata da una crisi preoccupante proprio nei paesi in cui essa sembrava consolidata. L’assalto a Capitol Hill, la forza dei sovranismi, la Brexit, la diffusione della corruzione (si vedano i recenti fatti di Bruxelles) ne sono un’evidente attestazione. D’altra parte (è la tesi di De Angelis) l’Occidente è segnato da un eccesso di individualismo e vive, in questo momento, anche una sorta di «tirannia culturale» del politically correct. Le contraddizioni, insomma, come viene ribadito, non mancano. Anche se Gianfranco Pasquino non manca di ergersi efficacemente a difesa delle (disconosciute) virtù dell’Europa «presbite», prendendo a prestito l’aggettivo che Piero Calamandrei aveva usato per difendere la nostra Costituzione.
Perché nella copertina del volume è presente l’immagine di una scultura bifronte?
In questo c’è un rimando anche alle suggestioni espresse nel pensiero di Ernesto Balducci. Che si ricavano anche dal suo libro, qui richiamato, dedicato a La Terra del tramonto (che, peraltro, come sottolinea Siliani, non è solo un saggio sull’ Occidente ma sulla situazione apocalittica del nostro tempo). Per Balducci, l’Occidente è Giano bifronte. Ha espresso il colonialismo e l’imperialismo, ha tuttora responsabilità enormi rispetto ad un ceto modello di sviluppo che attenta all’integrità della biosfera, certo. Ma ha anche elaborato la cultura dei diritti umani. C’è un’ambivalenza profonda in questo. Un tema su cui riflettere e su cui lavorare all’interno della complessità del nostro tempo. Di Balducci è bello ricordare il discorso altamente significativo che pronunciò all’Arena di Verona nel 1991. Parlò, appunto, dell’Europa.
Ci sono due Europe, disse in sostanza. C’è un’Europa «che noi non amiamo». È l’Europa della cultura del dominio, che ha prodotto disastri storici e che disconosce l’altro da sé. Ma c’è anche un’Europa «che noi amiamo» e che sta faticosamente nascendo. È l’Europa che vuole essere fedele alla cultura dei diritti umani, che essa stessa ha concepito (e a cui è stata, purtroppo, non poche volte, infedele). Una cultura, quella dei diritti umani, verrebbe da aggiungere, che, se rapportata al rispetto della diversità delle culture, è un patrimonio a disposizione dell’intera umanità. Lo dice benissimo, ancora, Claudia Mancina, laddove ricorda che questi valori sono universali, nel senso che valgono per tutti, ma «non certamente nel senso che possano essere imposti a tutti. Rispettare le diverse vie che la storia può prendere: è questo il modo di essere fedeli al legato occidentale, cioè all’universalismo della libertà e dell’uguaglianza di opportunità».