Dopo la tempesta, il cerchio si ricompone. Come sempre

Volterra – Accade che, nonostante l’attesa e la salita, il sole o la pioggia, il cerchio alla fine si ricomponga. La comunità teatrale recita la sua parte e la “maniera” di Punzo si rivela ancora una volta vincente. Lo scorso anno, al primo studio di avvicinamento a un “Tutto Shakespeare” che occuperà Punzo e i suoi attori detenuti della Compagnia della Fortezza, anche nelle prossime puntate, invocavamo qualche grado in meno e qualche refolo di vento in più. Ora, alla prima del nuovo appuntamento che apriva di fatto Volterra Teatro numero 30, più che accontentati siamo stati puniti.

Un leggero, iniziale piovigginare, anche garbato, piacevole, si è trasformato in un magnifico temporale, un diluvio estivo d’acqua che non ha lasciato scampo. E che a suo modo, con impeccabile tempismo, faceva giustizia del titolo impresso alla rappresentazione, “Dopo la tempesta”. Fuggi fuggi generale, tutti dentro, bagnati fradici, e naturalmente spettacolo interrotto. Da quanto abbiamo visto (comunque più della metà) il quadro o il punto di vista dello scorso anno (che si chiamava “Know well”) si era spostato di poco. Stessa identità spaziale, stesse traiettorie narrative, stessa oscillazione drammaturgica, stesso impianto scenografico (il letto, il piano, le croci, le scale). Stessa atmosfera sospesa (ieratica, profetica?) e quel procedere con lentezza, inanellando quadri di un’esposizione e frammenti un’apparizione, costellazioni scespiriane a zonzo nel perimetro dell’ora d’aria del penitenziario volterrano.

Dicevamo che potrebbe essere, Punzo, un autore in cerca dei suoi personaggi. Che sono uomini che conosce bene, sa cosa chiedergli. E loro, cavallerescamente vestiti, avvolti in tuniche e drappi, con maestose gorgiere a forma di libro, reduci da Pinocchio e Alice, rispondono ciascuno a suo modo, chi da solo chi appoggiandosi al microfono spalla del “demiurgo” per recitare la propria parte, un atto che sa di confessione e complicità. Vale allora la pena in questa promiscuità domestica, cercare Amleto, Otello o Macbeth, rintracciare Ofelia o Miranda, enucleare Riccardo o Desdemona, intercettare Romeo e Giulietta, rubricare Lear, le sue figlie, Cassio, intravedere la foresta di Birman o l’ombra di Banco? Mettendosi dalla parte di chi ascolta, Punzo, dopo prove di protagonismo, riconquista le “urla del silenzio”, e gioca, novello Prospero, sulla sottrazione, la rarefazione, la distorsione (vedi i suoni, i rumori, gli echi, o la colonna sonora di Andrea Salvadori). Il mare di croci d’ogni dimensione disseminate per terra e appoggiate ai muri rimandano (forse) a nuovi relitti dispersi nel Mediterraneo? Stiamo (forse) assistendo al ripescaggio di anime morte che hanno bisogno di una nuova linfa per riappropriarsi delle loro storie? O siamo (forse) alla deriva di un teatro che non ha più illusioni da vendere e sogni di immaginare? Come Dante accompagnato per mano da Virgilio Armando Punzo attraversa il suo girone infernale. Lo fa da 28 anni. E a scadenza, come è giusto che sia, cambia registro. Modalità di frequenza e tallonaggio drammatico. Che, già da un po’, finita la stagione della “rivoluzione” antropologica (il detenuto attore portatore di valori espressivi altri, inediti), quella rapsodica della parata e dei tableaux vivants, quella delle contaminazioni e delle provocazioni, con le magnifiche accelerazioni finali, chiamato il pubblico a raccolta, diventa ora (almeno così ci sembra) la scommessa di una estetizzante pulsazione ritmica, un ingranaggio di cellule narranti che distillano attesa, pausa, sospensione, interrogativi, energia minimale e catarsi totale. E allora anche se piove (o il sole brucia) la “cerimonia” continua. Dopo la tempesta come in questo caso. E dopo l’uscita dal carcere. Come sempre.

Foto: Volterra Teatro

 

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