La fondazione Kennedy pone al centro la donna come promotrice del cambiamento e protagonista attiva della storia attraverso la mostra "Ladies for Human Rights", in cui l'artista Marcello Reboani ha rappresentato volti femminili significativi a partire dalla giovanissima Malala fino a Rita Levi Montalcini e Madre Teresa di Calcutta. Proprio tra le pareti su cui erano appesi i ritratti della nostra epoca si è svolta ieri mattina una conferenza dedicata alle donne e ai diritti umani in tutti i loro aspetti. Presenti Sarah Morrison, Console generale degli Stati Uniti d'America a Firenze; Cristina Giachi, Assessore comunale; Alessandra Pauncz, Presidente dell'Associazione Centro d'Ascolto Uomini Maltrattanti; Margherita Michelini, Direttrice dell'Istituto Gozzini.
Sarah Morrison ha raccontato, attraverso le sue esperienze in Liberia, di come le donne siano riuscite a ottenere un programma per la pace ed eleggere la prima presidente al femminile di tutta l'Africa: gli uomini si erano limitati, invece, agli aspetti più materiali legati ai danni della guerra, come ad esempio la mancanza di denaro.
Anche in Afghanistan si sono raggiunti notevoli progressi nell'ultimo decennio: la speranza di vita da 42 anni è aumentata fino a 60, mentre l'analfabetismo nelle città ha conosciuto una rapida riduzione.
Al tema dell'istruzione si è allacciata Cristina Giachi insistendo sull'importanza che essa assume in ogni cultura come strumento di emancipazione e di lotta agli stereotipi. Infatti, anche nelle nostre società moderne c'è il bisogno di insistere sulla questione delle donne perché la discriminazione permane – seppure latente, più strisciante o apparentemente marginale. Ormai non basta più spiegare un fenomeno come quello – ad esempio – del femminicidio con ragioni legate alla cultura retrograda o alla struttura patriarcale perché sarebbe una motivazione di certo riduttiva e fuorviante: ci sono uomini che non riescono a farsi aiutare quando precipitano nella spirale della violenza e donne offuscate dalla fragilità che non identificano a sufficienza la minaccia nell'altro, persone di ogni status a prescindere dalle loro caratteristiche sociologiche. Il femminicidio è un fenomeno trasversale di natura macroscopica, e come tale deve essere trattato dalle istituzioni. "Non dobbiamo farne una battaglia soltanto politica da utilizzare in campagna elettorale", ha continuato l'assessore: purtroppo questo tema è soggetto a strumentalizzazioni e spesso vi si creano attorno fazioni che rendono difficile il dialogo o l'accordo.
Sulla questione del femminicidio e della violenza è intervenuta Alessandra Pauncz, che nel 2009 ha fondato l'Associazione Centro Ascolto per uomini maltrattanti con lo scopo di lavorare con persone che riconoscono la problematicità del proprio comportamento. In altri paesi europei, chi compie un atto violento è soggetto – oltre alle normali procedure d'imputazione giudiziaria – all'invio coatto ai programmi di trattamento. Nel caso italiano l'adesione è volontaria ma spesso gli uomini vengono spinti dalle compagne o da conoscenti sotto minaccia di denuncia: possono sottoporsi spontaneamente o "spintaneamente" in questo senso, come afferma la Pauncz. Il progetto terapeutico si configura come un cambiamento culturale e sociale, ad ampio raggio quindi rispetto al singolo episodio di violenza.
La violenza a volte può provenire anche dalle istituzioni come quelle carcerarie, che per troppi anni non hanno prestato attenzione particolare alle donne. Il luogo di detenzione è nato come istituzione maschile – ha osservato Margherita Michelini -, creato da uomini per contenere uomini. Non c'è stato un modello di carcere pensato per le donne che soffrono maggiormente per una limitazione della libertà e rappresentano poco più del 3% dei detenuti. La costituzione afferma che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato e al suo reinserimento nella società, ma nelle condizioni attuali questo non è possibile: il sovraffollamento aggrava i problemi presenti e non permette alle persone di riscoprire dentro di sé di quei valori che sono andati perduti né tantomeno di imparare a vivere in modo onesto e costruttivo una volta fuori.
Gli interventi si concludono con una riflessione sul silenzio che in alcuni casi può costituire una prigione ancor più dolorosa delle mura di un carcere: il silenzio delle donne arabe soffocate dal burqa – che Sarah Morrison fa indossare per qualche secondo alla moderatrice – il silenzio di chi subisce violenza e di chi, separato dall'esterno, sente di non avere un'altra possibilità.