Donald Trump presidente: le parole sono pietre

Firenze – Sono passati otto anni da quella sera che vide un afro-americano conquistare il potere che fu di George Washington e Franklin Delano Roosvelt. Eravamo tutti più o meno commossi per quella che ci apparve la svolta più importante del nuovo millennio: la parola fine a un secolo di conflitti e violenze, odi e discriminazioni. Yes, we can. Sì, il mondo può cambiare. Quella promessa di Barack Obama è stata solo in parte mantenuta e ora rischia di apparire come un abbaglio, una vana fuga della mente nelle terre dell’utopia.

Alla Casa Bianca è arrivato un personaggio che riporta brutalmente con i piedi per terra. Signori, l’uomo del duemila non è cambiato e la politica non è fatta di visioni, di società migliori, di attenzione ai più deboli. No, la politica è un gioco fatto di prepotenza e di intreccio di interessi. Rimettiamola nel posto che gli spetta, torniamo al conto del dare e dell’avere e vinca il più forte.

La destra ha ispirato per lo più i suoi programmi a questo concetto, ma Donald Trump è qualcosa di diverso perché lo riveste con parole violente nella sostanza. Il suo linguaggio è populista nell’accezione texana del termine: duro, maschilista, terragno. Fa leva sulla “pancia” degli americani che hanno sempre mal sopportato apertura e integrazione: le responsabilità della Grande Potenza se questa comporta anche condivisione di svantaggi e qualche sacrificio.

Certo, come dice Matteo Renzi, il presidente Trump sarà diverso dal candidato Trump, che ha giocato subito la rassicurante carta del “presidente di tutti”. Certo, dovrà fare i conti con l’establishment repubblicano che ha conquistato il Congresso. E da questo punto di vista la sua personalità di outsider e la sempre dichiarata totale autonomia dalle lobby potrebbe far uscire dal cilindro qualche sorpresa, come l’auspicata riduzione degli armamenti e la fine delle guerre geopolitiche che tanto sono piaciute ai suoi predecessori che hanno votato scheda bianca.

Ma non bisogna mai dimenticare che le parole sono pietre, che esse non solo esprimono ciò che si pensa fin nel profondo, ma hanno il potere retroattivo di cristallizzare la coscienza. La retorica genera comportamenti. Trump, ci auguriamo di sbagliare, potrebbe diventare un grosso problema per la tenuta di una società americana che negli ultimi tempi ha mostrato smagliature e tensioni nuove: le sue ricette sono le peggiori possibili per una democrazia avanzata. Polizia, forza, anche la tortura legalizzata.

L’Europa si trova di fronte a un rischio elevato. Il vento del populismo soffia nelle vele già spiegate di Marine Le Pen e delle formazioni più o meno omogenee dell’anti sistema politico, un vento che potrebbe diventare una tempesta nel 2017 quando si voterà in Francia e in Germania. Un vento che sbriciola le basi dell’integrazione europea e riporta nazionalismo e protezionismo come se nessuno si ricordasse che i 70 anni di pace che abbiamo vissuto sono per l’appunto dovuti alla loro scomparsa.

Mai veramente diventata una forza unita, all’altezza di Usa, Russia e Cina, l’Europa ha perso la Gran Bretagna che non vede l’ora di ricostruire vecchie sante alleanze anglosassoni e dà le viste di dividersi progressivamente di fronte alle grandi sfide di questi anni: la crescita debole, l’immigrazione, il terrorismo. Si tornerà indietro di un secolo?  E se l’uomo di oggi fosse davvero in tutto e per tutto quello stesso uomo che un secolo fa si infilò quasi senza accorgersene e quasi senza volerlo nel primo conflitto mondiale?

Ciò che più aiuterà Donald Trump a diventare un presidente migliore di quanto lo sia stato da candidato, perciò, sarà la freddezza, la perserveranza e la lungimiranza dei leader europei, la cui missione ora è diventata più difficile.

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