Pubblichiamo il testo dell’intervento dell’Arcivescovo di Firenze card. Giuseppe Betori che ha concluso il Convegno pastorale organizzato a Firenze e Calenzano il 24 e il 25 novembre 2023 in occasione delle celebrazioni per il centesimo anniversario della nascita di don Lorenzo Milani.
Con una piccola ma essenziale correzione rispetto al titolo presente nel programma di questo Convegno, quanto mi appresto a dire non vuole essere una riflessione concentrata su Esperienze pastorali, il testo che don Lorenzo Milani pubblicò nel 1957, il primo e unico libro di cui egli si presenta come autore, il libro che cadde presto sotto gli strali dei settori più retrivi del mondo cattolico, in specie romano, e che provocò nel dicembre 1958 l’ingiunzione da parte dell’allora Sant’Uffizio di ritirarlo dal commercio e di proibirne ogni ristampa e traduzione, proibizione decaduta per volontà del Santo Padre Francesco solo nell’aprile 2014. Quel libro è riferimento fondamentale per le riflessioni che vorrei condividere, ma queste vorrebbero andare al di là del libro e riferirsi all’agire pastorale di don Lorenzo, a Calenzano prima e poi a Barbiana, avendo come scopo – come indica la seconda parte del titolo dell’intervento – di cogliere ciò che tale agire dice alla Chiesa, e alla Chiesa del nostro tempo. Riflessioni – per concludere questa nota introduttiva – che non hanno alcuna pretesa di completezza e neanche di organicità, ma che vengono offerte soltanto come spunti per una comprensione di don Milani nel suo rapporto con la Chiesa nel concreto della vita pastorale, quella del suo e quella del nostro tempo.
Il primo dato che emerge nel considerare l’agire pastorale di don Milani, così come egli lo descrive in Esperienze pastorali e così come emerge dal suo epistolario in rapporto ai due luoghi del suo ministero sacerdotale, è la parte preponderante che in esso assume la ricerca della comprensione del contesto socio-culturale-religioso in cui quel ministero deve svolgersi. Il punto di partenza per don Milani è assai meno un assunto dottrinale da calare sulla realtà, quanto piuttosto una lettura approfondita della realtà per individuare le risposte di verità che essa esige. Siamo nel pieno di quel rapporto tra il reale e le idee che Papa Francesco ha codificato nell’Evangelii gaudium nel principio per cui «la realtà è superiore all’idea. Questo implica – spiega il Papa – di evitare diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza» (n. 231).
Questo approccio ha la chiara funzione di rifiutare ogni ideologismo, senza peraltro rifiutare la funzione del pensiero come strumento di comprensione. Continua infatti il Papa: «L’idea – le elaborazioni concettuali – è in funzione del cogliere, comprendere e dirigere la realtà. L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci» (n.232), per concludere poi nell’indicare il fondamento teologico di questo approccio nel mistero dell’incarnazione: «La realtà è superiore all’idea. Questo criterio è legato all’incarnazione della Parola e alla sua messa in pratica: “In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio” (1 Gv 4,2). Il criterio di realtà, di una Parola già incarnata e che sempre cerca di incarnarsi, è essenziale all’evangelizzazione» (n. 233).
Non ritengo di fare un passo indebito nel dire che don Milani si sarebbe ritrovato a casa sua in questa prospettiva che il Papa ci offre. Lo stesso don Milani, a proposito di Esperienze pastorali, scriveva ad Arturo Carlo Jemolo, contestando la recensione che ne aveva fatto l’illustre studioso dei rapporti tra Stato e Chiesa: «Il mio libro è un documento eccezionale perché capovolge il punto di vista abituale. Invece di vedere la cosa dall’alto dei principi la mostra vista dal basso della piccola prassi parrocchiale là dove però c’è le cose più grandi per noi cristiani (l’individuo, i Sacramenti)» (Lettera a Arturo Carlo Jemolo, 7.9.1958: Don Milani. Tutte le opere, vol. II, Mondadori 2017, p. 540).
Il modo con cui don Milani vive questo ancoraggio forte alla realtà, alla storia, è anzitutto connotato dallo sforzo di raggiungere una comprensione di essa che sfugga all’emotività, alla sensazione, all’approssimazione, tanto meno all’opinione prevalente, ma si affidi agli strumenti di analisi dei processi culturali e sociali, inclusi quelli religiosi, che vengono offerti dalle scienze umane. Le pagine di Esperienze pastorali sono piene di tabelle, grafici, numeri che introducono a una lettura del reale non epidermica ma oggettivata in dati quantitativi, che danno consistenza alle conclusioni qualitative offerte per i diversi soggetti presi in considerazione: casa, lavoro, migrazioni, istruzione, ma anche catechismo, sacramenti, devozioni, ecc.
È aperta la discussione tra gli studiosi su quanto, in questo modo di porsi di fronte alla vita pastorale, don Milani abbia attinto dalla sociologia religiosa francese contemporanea, che pur non gli era ignota. Ma c’è un’originalità nel prete fiorentino che emerge con evidenza ed è la connessione che, attraverso queste analisi, egli stabilisce tra la consapevolezza dei mutamenti sociali in atto e la risposta che l’istituzione ecclesiale deve offrire sul piano della salvaguardia della dignità della persona favorendo l’accesso all’esercizio della parola per aprire a una consapevole esperienza religiosa. Lettura attenta, perfino scientifica, della realtà, dunque, oltre ogni approssimazione e ogni cortocircuito ideologico, che si genera quando la dottrina piove sul reale senza la mediazione della comprensione di esso, con il tentativo di ingabbiare la vita nell’idea e non invece di incarnare la Parola nella vita compresa nei suoi interrogativi e nelle sue attese.
A questo sguardo concentrato sul presente, che va accostato all’invito evangelico a «interpretare i segni dei tempi» (Mt 16,3), don Milani, nella sua prassi pastorale, accosta un altro sguardo, rivolto questo alla storia, in concreto alla storia di Gesù. Colpisce anzitutto questo concentrarsi della proposta di fede sul mistero cristologico. Ciò che conta nella fede per don Milani è tutto nella persona di Gesù, in quanto in lui si ha accesso al mistero del Padre e dello Spirito e in quanto è lui che nello Spirito è l’anima del soggetto storico della Chiesa. Radice trinitaria e presente salvifico hanno in Gesù la loro cerniera, e nella conoscenza di lui si ha quindi modo di entrare nella totalità del mistero della fede. Potremmo riconoscere in questo approccio una fondamentale sintonia con la svolta cristologica che ha segnato i più recenti sviluppi della ricerca teologica. Ma, a questo, don Milani aggiunge un’ulteriore connotazione dell’approccio al mistero di Cristo, la via storica.
Le schede, elaborate tra il 1948 e il 1952, che formano Il Vangelo. Lezioni di catechismo, non giunsero mai a una formulazione compiuta – e don Milani per questo motivo aveva chiesto, prima di morire, che fossero distrutte –, mancando peraltro anche delle ultime tre, ma sono un esempio concreto di quell’Insegnamento del catechismo su uno schema storico, che era il titolo di un articolo che don Milani redasse nel 1950 ma che non venne mai pubblicato, in cui egli offre i fondamenti culturali e teologici dell’approccio storico ai contenuti della fede, un approccio che lo pone nella scia del rinnovamento biblico che preparò e accompagnò il Concilio Vaticano II, condividendo l’impostazione storico-critica della lettura dei testi.
Non sto qui a esaminare queste Lezioni di catechismo che altri, e con ben altre competenze hanno aiutato a comprendere nella loro genesi e nelle loro finalità. A me basta, nel nostro contesto, evidenziare come nella visione pastorale di don Milani il centro propulsore della comunicazione della fede debba essere l’incontro con la persona di Gesù Cristo colto nella concretezza della sua vicenda storica, in cui si incarna il suo mistero e ne diventa pertanto la porta d’accesso ineludibile. Quale sia la meta che ci si attende da tale incontro con la figura di Gesù è variamente esplicitato da don Milani, in specie nel suo epistolario, come la possibilità offerta alla persona umana di riappropriarsi della propria dignità, variamente lesa dalle condizioni sociali ma anche dalla stessa comunità cristiana, ridotta nel suo apostolato alla ripetizione di pratiche religiose, poco comprese dal popolo e private del loro stesso significato religioso.
Di qui la scelta di orientare l’intera azione pastorale nel porsi al servizio della riappropriazione della parola, strumento necessario per la comprensione delle vicende umane e dei misteri della fede. In tal senso, sia la scuola popolare a Calenzano sia la scuola di Barbiana non si presentano come un’azione di supporto sociale ma come il luogo della presa di coscienza della propria soggettività personale da parte di chi ne veniva coinvolto. Dirà Papa Francesco a Barbiana: «Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole» (Discorso in occasione della visita alla Tomba di don Lorenzo Milani, Barbiana 20 giugno 2017).
Sono parole in cui possiamo riconoscere una compiuta sintesi delle finalità in cui si muove la pastorale di don Milani e che, in condizioni mutate ma parimenti urgenti, hanno significato ancora oggi, in tempi in cui non è forse la mancanza della parola a ostacolare la pienezza dell’umano ma sì la confusione delle parole, il rumore di fondo della comunicazione sociale che disorienta e ostacola anche oggi l’esercizio personale della coscienza e quindi, pur sempre, la libertà e la giustizia. Entrare in questo percorso personale di riappropriazione del sé civile e religioso non potrà mai essere un fenomeno di massa, ma il frutto di relazioni vitali, nel rapporto da persona a persona, quello tra maestro e allievo e poi quello dei discepoli tra loro. Il rapporto si regge ovviamente sulla trasmissione di saperi e sulla loro condivisione, come si evidenzia nella scrittura condivisa da cui nascono già le schede del catechismo e poi Lettera a una professoressa, ma ha soprattutto una connotazione di implicazione personale.
Essa darà luogo a espressioni del priore a caratteri forti, a cominciare dalla ben nota: «Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto» (Lettera a Michele, Francuccio Gesualdi e ai ragazzi, 1.3.1966: Don Milani. Tutte le opere, vol II, Mondadori 2917, p. 1251). Ma la compromissione personale non si regge sugli affetti o soltanto su di essi, bensì sulla responsabilità che si ha verso l’altro. Potremmo chiamarlo il dovere della testimonianza. Don Milani preferì un’espressione che veniva dal nuovo mondo: I Care. Una frase che spesso viene ricondotta all’impegno sociale che deve trovare spazio in una vita umana compiuta. Ma non è privo di significato che il cartello in cui si legge questo motto nella stanza in cui la scuola di Barbiana svolgeva la sua attività nella canonica fosse affisso sulla porta della camera del priore, a dire che l’impegno ad avere a cuore, a prendersi cura, era anzitutto suo, di don Milani, ed era rivolto anzitutto a quel concreto gruppo di ragazzi che avevano accolto il suo appello a crescere nella loro dignità umana e cristiana.
Relazione personale e testimonianza, presa in carico dell’altro e dedizione di sé rappresentano note dell’esperienza pastorale di Calenzano e di Barbiana che hanno molto da dirci oggi, in una situazione ecclesiale in cui tutto l’apparato organizzativo e le pianificazioni pastorali mostrano la loro inadeguatezza nel tumultuoso cambiare dei tempi e ci resta solo lo sguardo posato sull’altro, la mano tesa a stringere quella dell’altro, la consapevolezza che la fede passa dall’incontro tra persona e persona, da cuore a cuore, in quanto ciascuno si fa testimone della presenza di Cristo per l’altro; da persona a persona per condurre alla persona di Gesù, poiché, come ci ha ricordato Benedetto XVI «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus Caritas est, n. 2).
Lo snodo personale, umano, tra gli umani, e umano-divino, tra noi e Cristo, è essenziale al percorso di fede. Unitamente alla dimensione personale la prassi pastorale che don Milani ci propone esige una forma strettamente comunitaria. Non ci si salva da soli, non si salvano anime, ma la rigenerazione dell’umano in Cristo passa attraverso la concretezza della persona nella sua interezza anche corporea, e quindi delle sue esigenze sociali, e quindi della sua appartenenza a un popolo, a una concreta comunità. Di qui l’attenzione ai processi sociali – in quel tempo in particolare alle trasformazioni legate al passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale – e alle loro conseguenze sul vissuto del popolo e in particolare alla tenuta dei legami comunitari per difenderli da poteri invasivi e prevaricatori; ma anche l’attenzione alle condizioni ecclesiali, in cui il rapporto tra esercizio dell’autorità e costruzione di vincoli comunionali era percorso ancora da forti divaricazioni, di cui lo stesso priore non da ultimo fu vittima e che egli soffrì con profonda amarezza.
Lo testimonia bene una lettera di don Milani all’allora Vicario Generale mons. Giovanni Bianchi: «Mi meraviglio che lei dopo la sua visita qui non abbia ancora capito che i miei ragazzi e io ci sforziamo quotidianamente di vivere in una elevata atmosfera di dedizione al prossimo, di problematica religiosa, morale, politica, culturale a alto livello» (Lettera a mons. Giovanni Bianchi, 20.10.1963: Don Milani. Tutte le opere, vol. II, Mondadori 2017, p. 942). Il vissuto comunitario a Barbiana per don Milani e i suoi ragazzi prese la forma di una comunità di vita che ha caratteri legati al luogo e alle persone, ma resta per tutti l’esigenza di esprimere la natura comunitaria dell’esperienza di fede in forme non ideali ma concrete. Parole del priore: «Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio» (Lettera a Nadia Neri, 7.1.1966: Don Milani. Tutte le opere, vol. II, Mondadori 2017, p. 1220).
Nell’attenzione alla società e alla comunità un posto prioritario va riservato secondo don Milani agli ultimi, a chi è ai margini, agli umili. Lo segnala un’altra frase ben nota di don Milani e dei suoi ragazzi, che nel denunciare una situazione indica anche un obiettivo: «Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra diseguali» (Lettera a una professoressa, L.E.F. 1967, p. 55: Don Milani. Tutte le opere, vol I, Mondadori 2017, p. 727). Se c’è una diseguaglianza c’è un vuoto da colmare, c’è un’attenzione da privilegiare, c’è una povertà da redimere. «Dalla nostra fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società» ha scritto Papa Francesco (Evangelii gaudium, 186). E ancora: «Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro la sua prima misericordia.
Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere “gli stessi sentimenti di Gesù” [Fil 2,5]» (Evangelii gaudium, 198). Farsi carico delle povertà, nelle diverse e sempre nuove forme che esse rivestono, farsi carico concretamente dei poveri è un agire storico che non si colloca per sé su un piano di intervento sociale, ma appartiene a una fede che voglia essere conformazione a Cristo A questa privilegiata attenzione ai poveri si collega un’altra dimensione della pastorale di don Milani, quella che la caratterizza come fortemente legata ai risvolti sociali della verità evangelica. Lo stesso impegno sindacale e politico a cui educa i suoi ragazzi è visto non come un elemento accessorio della loro formazione cristiana, ma come il riflesso nella società di una visione della persona e dei suoi legami sociali che ha le sue radici nel Vangelo Scrive in Esperienze pastorali: «Non vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale» (Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, LEF 1957, p. 241: Don Milani. Tutte le opere, vol. I, Mondadori 2017, p. 269s).
Un ultimo carattere mi preme segnalare dell’attitudine pastorale di don Milani che deve interrogarci. Il suo stare saldamente nella Chiesa, ma con una libertà e una sincerità che, non sempre comprese al suo tempo e anzi foriere di contrasti e accuse dolorose, costituiscono il duplice volto di una radicale fedeltà. La sua voce scomoda non era tale in forza di una volontà di critica verso la Chiesa, ma il frutto di un amore che si nutriva di verità. Il suo stesso confronto con il Vescovo assume anche toni aspri, ma è guidato dal non voler far mancare al suo pastore la verità e voler costruire insieme la comunione. Non chiedeva infatti altro che il riconoscimento dell’ecclesialità del suo percorso.
È ben nota la lettera inviata al cardinale Ermenegildo Florit da un don Lorenzo ormai gravemente malato: «Vuole ereditare la mia umile opera? vuole mietere dove io ho seminato? vuole partecipare all’abbraccio affettuoso dei poveri che mi vogliono bene, che ho tentato di avvicinare al Signore […]? Le propongo una soluzione pratica. Mi inviti lei personalmente a tenere delle lezioni o conversazioni di pratica pastorale al Seminario Maggiore. Non le chiedo di dire ai seminaristi e ai miei due infelici popoli che questa mia è la santità, che questa è la ricetta unica dell’apostolato, che tutto il resto è errore. Le chiedo solo di dire ai seminaristi e ai miei due infelici popoli che nella Casa del Padre mansiones multae sunt e che una di esse generosa e ortodossa fino allo spasimo è stata quella del prete che ella ha fino ad oggi implacabilmente insultato e lasciato insultare». (Lettera all’arcivescovo card. Ermenegildo Florit, 5.3.1964: Don Milani. Tutte le opere, vol. I, Mondadori 2017, p. 269s).
Questo riconoscimento è ciò che a cinquant’anni dalla morte venne a offrire Papa Francesco a Barbiana: «Il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale» (Discorso in occasione della visita alla Tomba di don Lorenzo Milani, Barbiana 20 giugno 2017).Questo legame di appartenenza alla Chiesa fortemente rivendicato da don Lorenzo era legato alla chiara coscienza che non dal consenso del pensiero egemone ma solo dalla misericordia della Chiesa poteva ricucire le ferite della vita. Lo affermava con chiarezza: «Non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa» (Lettera a p. Reginaldo Santilli, 10.10.1958: Don Milani. Tutte le opere, vol. II, Mondadori 2017, p. 567).Come Papa Francesco, siamo conviti che questa sofferta ma radicale fedeltà ecclesiale poteva scaturire solo da una fede altrettanto radicale nel Signore Gesù.
Concludo pertanto con le parole di Papa Francesco a Barbiana: «La dimensione sacerdotale è la radice di tutto quello che [don Lorenzo Milani] ha fatto. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede totalizzante, che diventa un donarsi completamente al Signore» (Discorso in occasione della visita alla Tomba di don Lorenzo Milani, Barbiana 20 giugno 2017).
Giuseppe card. Betori
In foto il cardinale Betori a Calenzano