Hanno fatto il giro del mondo foto e filmati che ritraevano pochi mesi fa alcuni imprenditori cinesi di Prato con in mano vari cartelli di protesta tra cui spiccavano quelli sui quali era scritto “Cobas Comanda Prato, Aiuto Istituzioni”. Forse perché non capivano lo sciopero dei loro operai pachistani che impedivano fisicamente l’entrata e l’uscita delle merci e che si concluse con un foglio di via emesso dalla Questura di Prato per i due sindacalisti di Si Cobas che avevano organizzato la mobilitazione.
Non furono pochi quelli che descrissero allora lo scontro come un vero e proprio conflitto etnico tra datori di lavoro cinesi e operai pachistani, anche perché negli ultimi tempi, gli imprenditori migranti cinesi di Prato avevano cominciato ad assumere a basso costo un enorme quantità di manodopera immigrata non cinese.Ma le cose stanno davvero vero così?
La storia dell’imprenditoria cinese inizia a Prato sul finire degli anni ottanta quand’essa riesce ad inserirsi nell’abbigliamento per conto terzi per le ditte finali sparse nelle città del Centro e del Nord Italia. I nuovi imprenditori cinesi impiegavano allora come forza lavoro i loro connazionali offrendo spazi angusti all’interno dei capannoni che lì lavoravano dalle 10 alle 15 ore al giorno, senza pause o giorni liberi e con pagamenti al di sotto dei contratti collettivi in condizioni igienico-sanitarie precarie. Ed inoltre pagati non in base alle ore lavorative prestate ma, in tantissimi casi, in funzione dei pezzi prodotti annotati in appositi registri. Nel rogo di uno di questi laboratori, il 1 dicembre del 2013, persero la vita a Prato 7 persone, cinque uomini e due donne, tutti di nazionalità cinese che vennero ricordate da Papa Francesco nella sua visita a Prato in occasione del primo anniversario della tragedia da lui stesso definita dello sfruttamento.
Un cambio di passo ci fu negli anni successivi quando alcuni terzisti cinesi riuscirono ad aprire in proprio ditte finali nel “pronto moda”, e in seguito a comprare dagli imprenditori pratesi le tintorie, espandendosi nel distretto tessile locale che per tradizione era in mano all’imprenditoria pratese. Da allora ad oggi è stato un susseguirsi di aperture di aziende cinesi,una dietro l’altra, tanto che allo stato attuale se ne contano a Prato circa 3.700 imprese nelle confezioni e 400 nel tessile con meno operai cinesi che però ci lavorano. Innanzitutto perchè ne arrivano sempre meno dalla Cina: essi preferiscono rimanere a casa, probabilmente spaventati dall’idea di affrontare viaggi estenuanti per vivere in città magari affollate e più esposte al contagio da Covid, oppure se residenti cercano un impiego fuori dal manifatturiero perchè meglio remunerato e con garanzie. Scoraggiano infatti i salari bassi, il rischio di infortuni e le lunghe giornate di lavoro.Hanno voglia di affermarsi,ad esempio in altre ambiti lavorativi, di elevarsi socialmente, guadagnare più dei loro genitori; desiderano insomma godersi il tempo libero dal lavoro senza particolari ansie o preoccupazioni.
Al loro posto sono subentrati i pachistani, i nativi del Bangladesh e gli africani. Una forza lavoro multietnica che rappresenta per alcuni imprenditori cinesi anche la possibilità di aumentare i propri guadagni perchè essa è a basso anzi bassissimo costo nel caso si tratti di rifugiati in quanto maggiormente vulnerabili. Da studi di settore è emerso che gli operai cinesi chiedono adesso stipendi alti,(perlopiù a cottimo), a differenza di quelli pachistani e bangladesi che sono più bassi, mentre gli africani percepiscono ancora meno. Nel caso di italiani, che non sono in gran numero e per lo più impiegati nelle tintorie cinesi,in qualità di specializzati o consulenti, o in qualche caso ex proprietari, le loro buste paga registrano cifre assai diverse. Una vera e propria disparità salariale che ha innescato in questi mesi una serie di proteste e dato il via a scioperi prolungati a Prato e zone limitrofe, causati anche,secondo una ricerca sullo sfruttamento lavorativo commissionata dal Comune di Prato qualche tempo fa, dallo strapotere dei datori di lavoro cinesi.
Quest’ultimi infatti ricorrono al «licenziamento facile» soprattutto nei confronti degli operai pachistani o africani quando essi decidono di rimanere a casa per uno o più giorni, (in mesi di lavoro non hanno diritto a prendersi un solo giorno libero), o quando chiedono di avere un contratto indispensabile per ottenere il permesso di soggiorno per lavoro. Una rigidità nei rapporti lavorativi fino a poco tempo fa impensabile.A ciò si aggiunge la disuguaglianza dei contratti: a tempo indeterminato per i cinesi al fine di agevolare il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro o il ricongiungimento, mentre per i lavoratori immigrati non cinesi, o non ci sono o hanno breve durata.
Tutto questo al fine di contenere i costi di un lavoro sempre meno remunerativo in un settore dove la concorrenza non soltanto per gli imprenditori cinesi è forte e ha pochi ricavi. Una situazione al limite che spiegherebbe l’affacciarsi dei sindacalisti di Si Cobas, che hanno indetto una serie di scioperi tra gli immigrati operai specie pachistani impiegati in alcune ditte tessili pratesi gestite da cinesi.Ad avere la peggio però sono stati gli operai pachistani che in diversi casi anche picchiati da cinesi durante un picchetto davanti alla tintoria dove lavoravano, sono dovuti ricorrere, per le ferite riportate, alle cure del Santo Stefano.
Allora verrebbe da chiedersi se ciò che è accaduto sia in realtà un nuovo modello cinese del «fai da te»per risolvere i conflitti di lavoro o se piuttosto non sia più in generale un modus operandi del forte contro il debole. Anche perché a Prato la nuova realtà del pronto moda e delle confezioni vede l’emersione di imprenditori pachistani che danno lavoro ai loro connazionali i quali raccontano di subire da questi lo stesso trattamento dei datori di lavoro cinesi. Quindi non siamo di fronte a uno scontro etnico sul fronte lavoro quanto piuttosto ad uno sfruttamento dei lavoratori in generale.
Diversi studi sul tema hanno poi dimostrato che la normalizzazione del lavoro precario ha portato con sé solo quello povero e non creato come si pensava occupazione. Di qui il fiorire di contratti finti, paghe al ribasso; un miraggio le ferie, le malattie, e il non diritto alla maternità, situazioni queste di marginalità che non sono purtroppo ascrivibili ai modelli di sfruttamento solo cinesi.