A un passo dal baratro: disoccupato minaccia di buttarsi

Disoccupato minaccia di buttarsi; ennesima dimostrazione di un senza lavoro

A un passo dal baratro“Senza lavoro non ho più dignità. C’è da vergognarsi, a trent’anni, a chiedere alla mamma i soldi per comprare le sigarette”. Lo urla dal tetto della sua abitazione, appollaiato vicino al camino, sui coppi arroventati dal sole di giugno. Lo grida per farlo sapere a tutti. Dieci metri più sotto, i suoi familiari, la polizia, un’ambulanza, il suo avvocato. Tenuta a distanza dalle forze dell’ordine, una piccola folla di curiosi, per lo più passanti che si stanno recando al mercato settimanale: tutti a naso in su, in tanti con il telefonino in mano puntato contro la disperazione di quell’uomo e pronti fotografarne l’eventuale suicidio.

Lui si chiama Said Addala e chiede solo la possibilità di portare a casa uno stipendio sia pur minimo. Richiesta normale in una “Repubblica fondata sul lavoro”, ma che oggi per centinaia di migliaia di famiglie è la principale domanda inevasa da una classe politica autoreferenziale, completamente assorbita dalla lotta per l’autoconservazione.

Il dramma è esploso stamane attorno alle ore 11, quando la polizia si è presentata a Cavriago al civico 22 di via del Mercato a casa della famiglia Addala per prelevare l’uomo: è clandestino, deve essere espulso dall’Italia e non potrà rientrarvi per dieci anni. Said non ci sta, e si arrampica: è a un’altezza non elevata ma potenzialmente mortale in caso di caduta. La zona viene transennata, arriva l’avvocato Nicola Tria: con la polizia cerca di far ragionare il suo cliente, ma lui semplicemente si sposta ancora più verso il culmine del tetto, per essere maggiormente visibile di quanto già non sia con quella t-shirt arancione… Un “barone rampante” in jeans, con una bottiglia d’acqua in mano, che si sposta da camino a camino. La madre Aicha, avvolta in un abito tradizionale, e la sorella Amar, vestita come una qualsiasi ragazza reggiana, si riparano all’ombra dell’edificio e insieme ad alcune amiche lo osservano controluce: sono angosciate, ma condividono la plateale protesta. “In Italia ci sono troppe cose che non vanno”.

In Italia Said Addala è arrivato quando aveva 5 anni con i genitori. Ha fatto qui le scuole: “Studiare gli piace, ha anche fatto tre anni di Filosofia all’Università”, spiega la sorella: “Mentre studiava si è trovato un lavoro, alla “Display Italia”, e c’è rimasto per 15 anni. Poi l’azienda è andata in crisi e lui ha perso tutto” (l’azienda precisa però di non essere mai entrata in crisi e che è stato il lavoratore a decidere di licenziarsi per tornare in Marocco, N.R.). Said si trova così a cercare affannosamente un posto che gli consenta il rinnovo del permesso di soggiorno.

A un passo dal baratroIntanto il fratello minore, Sadia, commette piccoli reati e – secondo alcune versioni – Said stesso sarebbe finito su una brutta strada. La famiglia giura che lui non c’entra: “Faceva il volontario per la Croce Rossa e, anni fa, ha anche dato una mano anche per organizzare l’accoglienza a livello locale di gruppi di bambini profughi del Kosovo… E’ un bravo ragazzo: ha una fidanzata e vorrebbe sposarsi”.

E mentre il fratello finisce agli arresti domiciliari (ma breve dovrebbe iniziare a svolgere piccoli lavoretti), la macchina della giustizia italiana si mette in moto impietosa per Said. Il ragazzo viene espulso e inviato in Marocco: però lui, che a malapena parla arabo, là non ha più nulla; o forse non ha mai avuto nulla. I parenti sono tutti in Italia, e non possiedono più nemmeno una casa nel Paese d’origine. Non ci sono amici, persone alle quali fare riferimento. Said è marocchino secondo il passaporto, ma in realtà è l’Italia il luogo che ha scelto per il suo progetto di vita e in cui sono tutti i suoi affetti. E così, Said da clandestino ritorna a Cavriago. Da clandestino è più difficile riuscire a trovare un posto, risalire la china. Specialmente se tuo fratello è agli arresti domiciliari, specialmente se c’è chi ritiene che anche tu “non sia uno stinco di santo”.

Il giovane uomo non si arrende: cerca anche pubblicità per il suo caso su “Striscia la notizia”. Nulla da fare: ieri la polizia si è presentata alla sua porta. La legge parla chiaro: uno straniero senza lavoro in Italia non ci può stare. Il problema di Said è che lui, straniero, si sente in Marocco. E potranno condurlo dieci volte sull’altra sponda del Mediterraneo, e dieci volte tornerà indietro. Così sale sul tetto per raccontare al mondo la sua storia d’immigrato dalla doppia appartenenza, lacerato tra due Paesi ma non per scelta. “Senza lavoro non c’è più dignità”, urla. Senza lavoro per lui non c’è più nulla. Una storia come tante: secondo l’Istat, in aprile, c’erano 6,4 milioni di persone ai margini del mercato del lavoro “tra disoccupati ufficiali (5 milioni 720 mila), inattivi disponibili a lavorare (2 milioni 975 mila) e sottoccupati part time (605 mila)”. Ben 6,4 potenziali “baroni rampanti”, che la politica non ascolta e che potenzialmente rischiano di entrare in competizione – anche brutale – con i “non italiani” come Said. Se il ministro Cécile Kyenge vuole davvero un’estensione dei diritti di cittadinanza, non faccia uscite demagogiche ma sproni i colleghi del Governo a creare occupazione vera. Con il lavoro c’è dignità e futuro. Per tutti.

 Fran. C.

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