Firenze – Diseguaglianze, welfare o beneficenza. O meglio, cosa succede quando uno stato di diritto appoggia e istituzionalizza, nelle sue politiche di contrasto alle diseguaglianze, iniziative di beneficenza dei singoli? La domanda sta diventando sempre più attuale di fronte alle decisioni di alcuni enti pubblici di appoggiare e organizzare iniziative che incoraggiano la presa in carico di situazioni di disagio individuali da parte di generosi singoli che decidono di condividere le loro fortune con cittadini meno fortunati. Una logica che va senz’altro a pescare nel settore delle beneficenze private, ovvero nel buon cuore e nella disponibilità dei privati abbienti di dare un aiuto a qualcuno che per vari motivi non riesce a far quadrare i conti. Impulso senz’altro nobile e da incoraggiare, che tuttavia pone alcuni problemi dal punto di vista squisitamente politico e sociale. Il rischio infatti è che a rimetterci sia il principio stesso del welfare, ovvero che lo stato riconosca la povertà o disagio economico che dir si voglia non come problema collettivo bensì come criticità individuale. In altre parole, il “povero” da soggetto di diritto (cittadino povero) rischia di trasformasi in caso umano pietoso, a cui provvedere in base alla logica della generosità individuale. Sulla questione, abbiamo interpellato Alberto Vannucci, professore di Scienza Politica presso l’Università di Pisa.
Professor Vannucci, qual è secondo lei il significato politico e sociale di un’azione di istituzionalizzazione della “beneficenza” da parte degli enti pubblici?
“Partirei da un presupposto. Alla base del welfare state c’è il riconoscimento della sussistenza di fasce sociali in difficoltà come problema di rilevanza collettiva, verso il quale si cerca di incidere con politiche che generano opportunità, allocano risorse in chiave redistributiva, espandono la sfera dei diritti. Su un versante ideologico e valoriale contrapposto, di ispirazione liberista, il ruolo dello stato viene limitato a dare manforte a forme di filantropia e beneficenza, su base individuale e associativa, considerando il disagio economico e le disuguaglianze sociali dei ceti più indifesi della popolazione come un portato ineliminabile, per certi versi desiderabile del funzionamento di un sistema di libero mercato. Lo spostamento del focus è evidente: le diseguaglianze non sono più interpreate come il problema di una comunità, di cui la politica e lo stato si debbano fare carico, ma come problema individuale, che altri individui possono – se lo vogliono – attenuare. La lettura del problema si sposta sul versante delle criticità (e delle risposte) da offrire su base volontaristica e individuale. Un approccio, quest’ultimo, che nasce da una concezione neo-liberista del ruolo dello stato. La contrapposizione tra il welfare state, che nei paesi scandinavi ha visto il riconoscimento di una sfera più estesa di diritti sociali, e il modello neo liberista, discende da due modelli ideologici e valoriali agli antipodi. Nella visione neo-liberista le diseguaglianze sono considerata come un effetto naturale della competizione economica, per attenuarne gli effetti ci si affida al cosiddetto “sgocciolamento” verso il basso della ricchezza di chi gode di immense fortune, assicurando un po’ di benessere anche agli altri, magari anche con qualche “opera di bene” filantropica. Di fatto, lo stato dominato dall’ideologia neoliberista delega la soluzione del problema delle disuguaglianze all’eventuale iniziativa e buona volontà dei privati”.
Si tratta dunque di due mondi diversi, in cui di fatto cambia il concetto stesso di cittadino?
“Elemento di distinzione è come ci si colloca di fronte al nodo delle diseguaglianze. Una politica che si limita a fare da intermediario fra il bisogno espresso dalla società e alcuni indvidui che decidono di occuparsene per generosità, per coscienza religiosa o etica, o altro, è una politica che non si schiera, non si assume responsabilità. Affidarsi alla filantropia individuale, affidarsi a soluzioni che si fondano sulla buona volontà dei singoli o delle associazioni benefiche, mi sembra un approccio politicamente ignavo. In questo scenario, di fronte all’accettazione acritica delle diseguaglianze sociali ed economiche, gli individui non appaiono più come portatori di diritti, sociali e di cittadinanza, quanto piuttosto ingranaggi di un meccanismo di mercato. Un modello neoliberista che, detto per inciso, viene invocato per giustificare le disuguaglianze, ma di fatto assai poco praticato da quelle larghe fasce dell’elite economica e professionale che rifuggono la concorrenza e lucrano dall’evasione dalle regole, dalla ricerca di protezioni e relazioni. Nella visione che per semplicità potemmo chiamare progressista, le disuguaglianze, specie quelle dei “punti di partenza”, sono il vero nodo da affrontare, perché il valore e il potenziale degli individui va ben oltre la loro funzione e il loro “prezzo” nel sistema di mercato. In fin dei conti, nel modello del welfare state si espande la sfera dei diritti sociali che permettono di attenuare le disuglianze derivanti dalle differenze nelle opportunità degli individui, oltre che di attenuare l’impatto negativo del diverso potere contrattuale delle diverse parti sociali”.
Qual è la ricaduta sociale della posizione neo liberista che si affida alla filantropia individuale?
“Molti diritti riconosciuti dallo stato, anche a seguito di mobilitazioni e battaglie popolari, rischiano di trasformarsi in miraggi. Affermare un modello di cittadinanza come consolidamento – e difesa – di un insieme di diritti, fra cui tutti quelli che caratterizzano il welfare come lo abbiamo finora conosciuto (diritto allo studio, alla sanità, al lavoro, alla previdenza sociale…), evitando gli sprechi, il sovraccarico burocratico e le distorsioni clientelari che purtroppo ne hanno spesso caratterizzato la traduzione in pratica, specie in Italia, rappresenta una sfida storica per le forze progressiste. Una sfida che ad ora sembra rimanere in larga misura fuori dal loro orizzonte di proposta politica. Senza dimenticare che mantenere in piedi un sistema efficace di welfare imporreebbe una cospicua redistribuzione di risorse, e occorre avere la credibilità e la responsabilità per chiedere sacrifici, il coraggio di proporli, anche accettando di pagare un prezzo in termini di impopolarità presso alcune categorie sociali. Un compito di grande difficoltà, specie in un Paese che ha livelli elevatissimi di economia sommersa, evasione fiscale, ed altre forme di illegalità di massa – vedi da ultimo le frodi nella gestione dei bonus fiscali – con un coinvolgimento esteso di “colletti bianchi”. Questo comporta una sottrazione sistematica di risorse che potrebbero essere destinate ad arricchire le politiche sociali, tanto per fare un esempio, e accentua le stesse diseguaglianze, a vantaggio di chi le regole le viola sistematicamente. Con l’arrivo dei miliardi del Pnrr, con i futuri (pochi) anni di “vacche grasse” per i bilanci pubblici si rischia di dimenticare o relegare sullo sfondo questi problemi strutturali. Se ci si affida soltanto o soprattutto alla beneficenza e alla filatropia per affrontare il tema delle disuguaglianze non è un segnale confortante di lungimiranza per la politica”.