Quale dovrebbe essere la fisionomia della sinistra oggi in Italia e in Europa? Il dibattito è aperto e dura da molti anni, almeno dal crollo del muro di Berlino. Ma il tema è sempre caldo. In Italia si è riproposto con forza dopo le elezioni politiche di settembre 2022 con la vittoria della destra erede del fascismo e la sconfitta del centrosinistra. Un contributo interessante viene dal recente saggio di Aldo Schiavone, Sinistra! Un manifesto (Einaudi, 2023). Molto dice quel punto esclamativo, che ha il significato di una scossa; di una sollecitazione forte a creare una sinistra più moderna, più propositiva e più disposta al cambiamento, a interpretare le trasformazioni in atto con categorie diverse dal passato.
La sinistra è nata nell’800, nel pieno di un conflitto fra capitale e lavoro, di due soggetti chiaramente individuabili: i capitalisti e la classe operaia. È la società di classe descritta da Marx, nella quale il movimento operaio costituiva il soggetto rivoluzionario. Non siamo più da tempo in questo dualismo; si è trasformato il capitalismo, la classe operaia è residuale o, quanto meno, non ha più quella portata trasformatrice, la tecnica e le nuove tecnologie hanno assunto un ruolo sempre più centrale nel lavoro e nella vita quotidiana. Parliamo di nuovi lavori legati all’informatica e alle possibilità di essere connessi col mondo intero; si pensi allo smart working.
Viviamo in una società fluida (per riprendere un termine usato da Zygmunt Bauman) e in un mondo del lavoro fluido. Non può che essere la sinistra a farsi interprete di tali cambiamenti per disegnare un orizzonte diverso, realizzare maggiore uguaglianza e dare valore ai beni comuni. La destra è per sua natura più tradizionalista, quando non regressiva. Il motto “Dio Patria Famiglia” dice molto sulle sue posizioni. Lo vediamo anche in questi giorni sui figli delle coppie arcobaleno, sui temi etici, sui diritti riproduttivi. Tocchiamo con mano che la differenza fondamentale fra destra e sinistra è fra una società chiusa e una società aperta, garante dei diritti individuali, promotrice della democrazia partecipativa, disposta all’accoglienza e a trasformarsi.
Il crollo del muro di Berlino è uno spartiacque. E infatti, un accenno di cambiamento c’è stato: la svolta della Bolognina nel 1989, la fine del PCI e la nascita del PDS. È vero che quella svolta è rimasta incompiuta, che è stata insufficiente l’elaborazione di una nuova cultura politica. Anche ciò che ne è seguito, il PD, nato con un progetto molto più ambizioso – unire diverse culture democratiche e riformatrici – non ha affrontato il tema, divenuto ancora più impellente. Anzi, lo ha volutamente rimosso. Con la conseguenza che sono prevalsi giochi di potere interno oppure, quando si è trovata a governare, sono venute in primo piano ragioni di compatibilità programmatiche, non supportate da un pensiero politico lungimirante.
Uno degli effetti più macroscopici di questo vuoto di pensiero è la fine dell’alleanza fra politica e cultura. Hanno perso ruolo gli “intellettuali”, i produttori di saperi e conoscenze, mentre i politici oggi si circondano di “consulenti”, di tecnici. Proprio per questo deficit di visione strategica, la sinistra non ha saputo arginare l’onda dell’antipolitica che ha portato al populismo e infine alla vittoria di questa destra estrema.
Ci troviamo ora in questo bivio cruciale: cambiare o perire. Una domanda alla quale non si può non cominciare a dare una risposta chiara è: se non c’è più la classe operaia a chi può parlare la sinistra? Chi sono i soggetti di riferimento? Qual è il ruolo della sinistra in un mondo fluido, globale e interconnesso? Per rispondere occorre alzare lo sguardo e ampliarlo, pensare a una sinistra più integrata almeno a livello europeo.
Nelle risposte che Schiavone propone non tutto però è convincente. Provo ad argomentare qualcuna delle obiezioni fra quelle possibili. La prima riguarda il problema dell’eguaglianza. L’eguaglianza viene mantenuta come uno dei principi fondativi della sinistra, insieme con la libertà. E questo è pacifico. Io nominerei anche la giustizia sociale, la solidarietà, la giustizia di genere. Aggiunge però che essa va spostata dall’economia all’etica e alle coscienze. Ma l’economia ha un ruolo determinante nella produzione di diseguaglianze, insieme alle politiche più o meno adeguate. Come si fa a cancellare questo nesso e a sussumerla totalmente nell’etica? Una sinistra rinnovata – prosegue – deve “staccare l’idea di eguaglianza dall’idea di lavoro (e di socialismo) e la figura del cittadino da quella di lavoratore”. Ora, staccare la figura del cittadino da quella di lavoratore è comprensibile. È tanto che ciò accade, da quando la sinistra ha acquisito l’idea dei diritti individuali universali. Staccarla però dall’idea di socialismo e staccarla dall’idea di lavoro non coincidono. E comunque, il lavoro – per quanto trasformato, slegato da un luogo fisico, tecnologizzato – resta parte fondamentale della realizzazione della personalità, oltre che dell’acquisizione di un reddito, come recita magnificamente l’art. 4 della nostra Costituzione.
La seconda obiezione è più complessa. Il fine di una politica di sinistra è individuato da Schiavone “nell’emancipazione dell’umano nella sua totalità”, nel riconoscimento dell’umano, della specie, come l’autentico soggetto. Un obiettivo di orizzonte che – condivido – non può che essere consustanziale con la sinistra. Ma alla domanda più pressante: come cambia la rappresentanza in questo mondo globale? Quali sono le priorità della politica e i soggetti di riferimento nella società e nel lavoro fluidi? la risposta è: mettendo al centro l’impersonale universalità dell’umano. Qui è il cuore della mia perplessità perché non vedo come l’impersonalità dell’umano possa diventare una categoria politica e un soggetto.
Come la politica può agganciare questo universale “impersonale”? Rischiamo di avere a che fare con una categoria astratta, disincarnata che, mentre si fa soggetto, desoggettivizza e fagocita i soggetti reali, andando così molto oltre il tema dell’emancipazione dell’umano. I due piani vengono confusi. Come può, infatti, l’impersonale farsi soggetto di diritti e libertà se perde la sua concretezza? Che pretese può avanzare? Questo “impersonale” non fa venir meno le responsabilità individuali verso gli altri e verso il mondo comune? Perché non si può continuare a parlare di individui eguali e diversi e che stanno in relazioni che vanno dal prossimo al globale?
Dagli individui in relazione e quindi dalle società, dal vivere in comune non si può prescindere. La contraddizione è evidente quando l’autore lega delle “isole di eguaglianza” nell’accesso ai servizi e ai beni fondamentali con le differenze delle singole individualità, che però si annullano “completamente quando si avvicinano a toccare aspetti per i quali non devono più esistere singole individualità, ma soltanto il comune umano, nella sua interezza e nella sua impersonale indivisibilità”. L’individuo si deve desoggettivizzare e diventare solo un frammento della totalità dell’umano. Ma la salvezza della specie e del Pianeta – che certamente diviene un obiettivo politico ed etico sempre più pressante – non è indipendente dalle azioni degli individui che agiscono di concerto.
Trovo, infine, che l’autore esprima un’eccessiva fiducia nella tecnica, considerata come strumento di liberazione, alla stregua di Marx, stabilendo una linea di continuità fra tecnica, progresso e diritti. E però, le nuove tecnologie di oggi, come l’Intelligenza artificiale, sono molto più versatili e insidiose, possono diventare anche strumento di dominio. Possono far diventare gli uomini una loro appendice impoverita. Pensiamo all’uso degli algoritmi e alle applicazioni che presiedono ad alcuni lavori, come quello dei riders, categoria simbolo di sfruttamento mediante l’utilizzo delle tecnologie, con il risultato che ci troviamo con sfruttati senza potere contrattuale.
Se è vero che è venuto meno il grande conflitto capitale-lavoro, è vero anche che la società è piena di vecchie e nuove microconflittualità.
In foto Aldo Schiavone