Firenze – Ridurre il cuneo fiscale aumentando l’Iva. Di fatto, dopo il vespaio sollevato dalle dichiarazioni del ministro Padoan, sembra che la quasi certezza dell’operazione stia sfumando in una semplice “opzione”.
In buona sostanza, la prima domanda d porsi è senz’altro chi verrebbe penalizzato maggiormente da un eventuale aumento dell’Iva, dal momento che la risposta ha delle implicazioni significative sull’economia interna del Paese.
Seguendo l’analisi compiuta dalla Cgia di Mestre (che si dichiara contraria all’operazione), in termini assoluti sembrerebbe una manovra del tutto equa, in quanto l’aumento dell’Iva andrebbe a colpire “i percettori di redditi più elevati, visto che a una maggiore disponibilità economica si accompagna una più elevata capacità di spesa”. Ma la misurazione più corretta, dice la Cgia, si calcola registrando “l’incidenza percentuale dell’aumento dell’Iva sulla retribuzione netta di un capo famiglia”. E così, emerge un dato: a pagare di più sarebbero i “percettori di redditi bassi e, a parità di reddito, le famiglie più numerose”.
Di quanto? Risponde, dati alla mano, l’Ufficio studi della Cgia veneta: “Con un incremento di un punto di Iva dal 22 al 23 per cento, ad esempio, una famiglia di 3/4 persone subirebbe un aumento di imposta di circa 100 euro all’anno che,ovviamente, avrebbe delle ripercussioni negative sui consumi interni del paese che costituiscono la componente più importante del nostro Pil”.
Dando un’occhiata ai beni e servizi cui si applica nel nostro Paese l’aliquota Iva, oltre agli scaglioni percentuali da un lato, dall’altro si registrano i beni e i servizi su cui si paga l’Iva: per quanto riguarda la percentuale Iva al 4%, ad esempio, troviamo latte fresco, burro, formaggio e latticini; ortaggi, legumi, frutta, farine; olio, margarina, conserve di pomodoro; paste alimentari, crackers, fette biscottate, pane. I primi gruppi alimentari insomma che formano buona parte della spesa quotidiana delle famiglie. Arrivano poi anche libri, giornali, abitazione principale non di lusso (il che riguarda una buona fetta degli italiani), ed altri beni che riguardano le disabilità. Passando all’Iva al 5% e utilizzando sempre le “tabelle” proposte dalla Cgia, troviamo alla prima voce basilico, rosmarino, salvia e origano, poi i trasporti. Al 10%, la carne in genrale, da quella bovina, suina, alla cacciagione, ma anche pesci, molluschi e crostacei, yogurt, panna, uova, in generale tutto ciò che rimaneva fuori dal paniere della spesa del primo scaglione, quello al 4%. Arrivando al 22%, l’aliquota si applica al vino, ad esempio, ma anche ad abbigliamento, calzature, elettrodomestici, mobili, biancheria e detersivi, acquisto di auto e tutto l’indotto, televisore, hi-fi e videoregistratore, computer, solo per fare qualche esempio che riguardano le necessità più comuni delle famiglie.
Insomma, forse l’aumento dell’Iva potrebbe semplicemente risolversi in una ulteriore contrazione del consumo interno, senza che i benefici dell’abbassamento del cuneo fiscale giunga a quelle fasce colpite dall’aumento dell’aliquota. “Di fronte a una crescita economica ancora molto timida e incerta, l’eventuale aumento dell’Iva condizionerebbe negativamente i consumi interni e conseguentemente tutta l’economia, penalizzando in particolar modo le famiglie meno abbienti”, tira le fila il segretario della Cgi Mestre Renato Mason. Già oggi, ricorda ancora la Cgia, “siamo tra i principali paesi dell’area euro ad avere l’aliquota ordinaria Iva più elevata. Se da noi è al 22 per cento, in Spagna è al 21, in Francia al 20 e in Germania al 19”