Probabilmente, le popolazioni che vivono nei paesi bagnati dal Mediterraneo sono non sempre – o quanto meno non completamente – consapevoli di avere fra le sponde un potenziale di grandissima portata, un patrimonio che per molti secoli è stato gelosamente custodito, magari anche “aggiornato” dai prodotti della Terra portati in Europa dopo il 1492, e poi tramandato da una generazione all’altra senza che il trascorrere del tempo potesse intaccarne il prestigio.
Questo patrimonio porta il nome di dieta mediterranea, attingendo il proprio senso alla “diaita” greca, quindi a uno “stile di vita” culturalmente complesso che va ben oltre il semplice atto di nutrire il corpo con degli alimenti che, pur restando parte essenziale del vivere sano, si sposano con atteggiamenti umani che si trovino integrati con il rispetto dell’ambiente, una modalità del vivere che non necessita di artifizi per essere vissuta nella sua pienezza.
Un modello fortificato dalla socialità insita nel Mare Nostrum, un mare che non allontana i popoli ma è naturale crocevia per lo scambio di culture con le loro tradizioni, atteggiamenti sociali, arte, architettura, usi, costumi. Perfetto esempio di laicità.
E sulla suggestione di questa grande onda emozionale, spinti dall’orgoglio di sentirsi parte di questo grande mare di cultura, pensiamo doveroso agitare un po’ le acque sulle cattive abitudini di vita, indotte dall’industria alimentare e dall’informazione che la segue. Intanto: è proprio necessario consumare cibi diversi da quelli che la stagione naturalmente produce? Se adottassimo questo comportamento, magari valorizzando i prodotti del territorio in cui viviamo, il risparmio in termini energetici – e di conseguenza ambientali – sarebbe immenso. Discorso che vale non soltanto per la catena del freddo, che durante tutto il suo percorso dalla produzione alla vendita – quindi dalla coltivazione, raccolta, trasformazione e distribuzione – richiede un vasto impiego di risorse materiali e umane. Ciò vale anche per i cibi apparentemente rispettosi di canoni salutari, e che invece subdolamente impone processi di lavorazione che con il benessere ben poco hanno a che vedere: è sufficiente leggere le etichette per comprendere quanto anche un cibo vegano imponga processi produttivi dispendiosi. Giusto dare qualche esempio, ma il problema si estende: perché qualcuno induce a comprarli, questi prodotti. Entra in gioco la pubblicità, quell’affascinante mondo di comunicazione persuasiva che, abilmente orchestrato, permette di generare profitto dall’emotività mobile della società.
Nel novembre 2010 UNESCO iscrisse la dieta mediterranea fra i beni che riconosce come patrimonio immateriale dell’Umanità, riconoscimento da riscoprire, conoscere, apprezzare non certo per mero campanilismo bensì per quanto la concretezza del suo messaggio che insegna a vivere in ben-essere come quotidianità: alimenti tipicamente nostri, come olive, uva, grano lo raccontano da secoli, sono parte di un regime nutrizionale che si lascia scandire dal genuino alternarsi delle stagioni seguendo un modello consolidato nel tempo, che si arricchisce della socialità insita alle genti del Mare Nostrum.