Dibattiti: il divorzio traumatico fra politica e intellettuali

Una riflessione proposta dal libro di Giorgio Caravale
Giorgio Caravale al centro, alla presentazione del suo libro avvenuta a Firenze al Gabinetto Viesseux

A cosa serve l’intellettuale? Dove si trova l’intellettuale? Esiste ancora l’intellettuale? Ma politico e intellettuale in che rapporto stanno, se c’è ancora rapporto? Interessanti quesiti, cui il libro di Giorgio Caravale non dà risposta, ammesso che risposta sia possibile, ma contribuisce a dare strumenti di riflessione. Un libro che è allo stesso tempo ricostruzione e riflessione storica e offerta di ipotesi, ma che contiene anche una potente e lucida analisi della disgregazione progressiva, negli ultimi trent’anni, dell’intellettuale e della politica, crisi di credibilità e autorevolezza subiti in modo quasi simultaneo dalle due parti. Un primo segnale, senz’altro del cordone ombelicale che stringe insieme i due mondi, o ciò che solo apparentemente, almeno rifacendoci all’esperienza della Prima Repubblica, erano due mondi.

Il libro di Caravale si suddivide in tre macroaree, che corrispondono ai tre capitoli interni, Una politica senza intellettuali, Una politica senza storia, Dentro e fuori dalla torre d’avorio.

La strada è dunque più o meno già tracciata. Perché si verifica il divorzio traumatico fra politica e intellettuale? Da storico quale è, Caravale una risposta la dà: il trauma inizia quando le vicende storiche diventano tali da colpire, rendendolo inattuale la figura dell’intellettuale gramsciano, organico al partito, a cui si allinea. Il grande programma di diffusione di idee e di una particolare visione della storia, tale da rendere il Pci del tutto imprescindibile dall’esperienza delle masse italiane e quindi dotato di una sua ineluttabilità da un lato ma anche di una sua connotazione storica nazionale, favorito, voluto e incrementato da Togliatti, egli stesso uomo di cultura e autore di diversi saggi storici, viene messo in atto dal Pci che penetra nel tessuto della cultura italiana con i suoi uomini di punta e di pensiero, allargando la diffusione delle idee propugnate; tanto più che all’epoca, dal dopoguerra fino ai primi anni ’90, nessuno si peritava a pronunciare la parola “ideologia” che configura, del resto, una sistemazione di idee per una proposta di mondo futuro. Tant’è vero, che insieme all’intellettuale “elaboratore di idee”, anche l’antico concetto di ideologia si ammanta di negatività e disprezzo. Ma stiamo precorrendo i tempi.

Cosa mette in crisi dunque la figura dell’intellettuale, fondamentale fino a tutta la prima Repubblica e anche nei primi tentativi di nuovi partiti (vedi Berlusconi) agli inizi della seconda, per qualsiasi partito politico che volesse ottenere credibilità nei confronti del pubblico? L’evoluzione della società da un lato, suggerisce Caravale, ma anche il cambiamento dei mezzi di comunicazione dall’altro (valgono più 30 secondi di televisione che interi editoriali sui giornali nazionali, questa se non la lettera il senso di una famosa frase di Berlusconi) e infine, la richiesta che la politica rivolge agli intellettuali. Se è vero che l’intellettuale organico di tipo gramsciano aveva comunque il dovere di mantenersi nella disciplina di partito e addirittura dei temi “propri” (divertente e amara la citazione del caso di Renzo De Felice, che solo per la scelta di indagare il fascismo diventa tout court fascista, lui che pur proviene da una temperie di sinistra), è anche vero che l’avvento di Craxi e il risorgere a sinistra, in particolare negli anni ’60 , dell'”orgoglio socialista”, determina qualcosa di interessante e inedito.

Ed è precisamente questo: l‘intellettuale comincia ad essere esibito come fiore all’occhiello, deve essere funzionale non più alla propaganda di partito – soggetto collettivo, ma di quella dell’uomo forte del partito. Da comitato collettivo a corte privata, il salto è deciso. Si comincia attorno a Craxi, che dispone adunate di intellettuali amici al cui parlare non dedica attenzione se non in fasi funzionali alla sua propria narrazione (di se stesso). Non lascia cadere la lezione Silvio Berlusconi che anzi la raffina e la fa diventare modello: l’intellettuale celebratore della bontà e saggezza delle scelte del Capo “è” l’intellettuale. E il resto? Affoga nel disprezzo. Tutto concorre alla retorica del “dagli all’intellettuale”: l’uomo di cultura, non più finalizzato a portare idee su cui comporre analisi e ipotesi per il futuro, cessa di essere “utile”, se non per la sua presa mediatica. Presa mediatica che, con l’avvento delle nuove tecnologie, diventa sempre più sbiadita e che, grazie alla stretta osmosi con la politica, osmosi ormai inesistente ma fortemente introiettata nella coscienza collettiva del Paese, diventa sempre meno stringente anche per l’assimilazione con la generale connotazione negativa che il termine partito e per estensione semplificatoria politica assume negli anni 2000. Dunque, da un lato cambiano le carte in tavola della politica, che da oggetto collettivo diventa sempre più storia personale del leader, mutando la natura stessa della funzione dell’intellettuale, che da operatore-strutturatore di idee diventa cantore di gesta.

E chi non ci sta? Prima di rispondere a questa domanda, è bene però segnalare un altro passaggio interessante del libro, ovvero quello della trasversalità dell’atteggiamento della politica rispetto all’intellettuale. Se è vero che dai primi esperimenti di Craxi si arriva alla conclamata corte di Berlusconi è pur vero che un passaggio ineliminabile nella trasformazione neanche tanto lenta, dell’intellettuale da figura rispettata e con un ruolo preciso di costruttore di idee (foss’anche qualche volta, di sistematizzazione di idee altrui, del partito, ad esempio) a cantore di gesta passa dalle varie Leopolde di Matteo Renzi.

Del resto, l’allora sindaco di Firenze realizza un’operazione eccezionale, in puro stilnovo, dolce forse no, al passo con i tempi certo: raduna svariati intellettuali “amici suoi”, in particolare l’apprezzato Giovanni da Empoli, e crea un coro di cantori del tempo nuovo in cui l’arte e la bellezza non va spiegata ma vissuta, i professori sono noiosi anziché no, il passato è un peso che schiaccia il futuro. E così, s’arriva attraverso la valenza anche semantica del verbo rottamare che infarcirà di sé l’intera stagione politica del Rottamatore, a dare una spinta molto forte a quella che Caravale chiama la politica senza passato. Uno sberleffo del destino, se la politica è senza passato, presto diventerà senza futuro, perché a furia di rottamare le pesanti radici della propria provenienza (storica) e di disprezzo per l’ideologia che non è altro che la sistematizzazione a lungo periodo delle idee, ovvero a furia di demonizzare i due ruoli chiave dell’intellettuale, la politica finisce per stemperarsi nell’eterno “presentismo”, come lo chiama l’autore: aiutata senz’altro dai nuovi mezzi di comunicazione di massa, con testi scarni e semplificati, appelli diretti all’utenza (Meloni e Salvini sono due esempi anche troppo noti) e l’importanza delle immagini, foto o video (brevi!) che siano.

Del resto, la Destra stessa che vive il suo reingresso nel cerchio del potere come una meritata rivincita, capisce ben presto che il suo affidarsi agli intellettuali nella costruzione della propria identità e credibilità, se strutturato secondo i vecchi modelli della Sinistra, ma meglio dire del Pci, la conduce a perdere. Lo capisce così bene che, dopo un primo tentativo del novecentesco Gianfranco Fini di portarsi alla ribalta con idee nuove, anche di rottura col passato, portate avanti anche personalmente, la Destra, scaricato il partitino di Fini, lascia in disparte personaggi storici e complessi come Cardini, Veneziani, Tarchi tanto per citarne alcuni, per dotarsi di una nuova classe intellettuale che trova sempre incredibilmente straordinario tutto ciò che compie la presidente del consiglio attuale. Insomma, nonostante un tentativo di thinktank sempre di Fini, Italia Futura che si rende responsabile con Filippo Rossi del tentativo di gettare le basi a lungo termine di una cultura conservatrice di Destra, prevale ciò che l’autore chiama la politica ad personam. E il servizio culturale ad personam.

C’è molto altro, nel libro di Caravale. Ad esempio, che l’allentamento della disciplina dei partiti sui loro intellettuali di riferimento, soprattutto gli storici, permette senz’altro studi con meno barriere e con più ampiezza e obiettività. Giusto, Inoltre, deliziosi i paragrafi dedicati alle fortune del nuovo intellettuale amato dalla politica tanto da acquisirlo a sé, ovvero l’Economista, come dimostra l’esempio di Mario Monti; ma come dimostra lo stesso esempio, si tratta di falsa agnizione, solo di uno strumentale e spregiudicato uso dell’intellettuale di turno, o che si presta al turno, da parte della politica. Senz’altro vera, la vana vanagloria di molti intellettuali ostentata nel rientrare nel riserbo del mondo accademico, senza mai uscirne se non a vantaggio delle loro ristrette cerchie , allargando il solco con la politica, dando l’impressione (e magari credendolo davvero) di ritenersi gli ultimi Puri nel mondo ; su questa tendenza degli intellettuali, sono ingrassati centinaia di migliaia di voti per Forza Italia e per la Lega .

Non parliamo dei M5S, come ben rappresenta Caravale, tranne poi scoprire che i grillini avevano in uggia gli “intellettualoni”, i “professoroni”, ovvero gli intellettuali che incontravano fortuna nel sistema, non certo le figure degli intellettuali delle “seconde e terze linee”, a cominciare dallo stesso Giuseppe Conte. Perché, e forse è la costatazione finale, politica e intellettuale non possono non stare insieme, la ricerca di come calare nella realtà del potere le idee, non può non spingere l’intellettuale verso la politica e il politico verso le idee. Vogliamo anche sottolineare che molti degli intellettuali che con disprezzo guardano la politica, sono pronti a entrare nel giro di giostra dietro lauto compenso o ruolo prestigioso; e che il politico, alla fine, non può fare a meno del suo cantore di gesta.

Alla fine ultima, ciò che si è rotto, dice Caravale, è quell’osmosi armoniosa fra politica e intellettuale che era il sale della Prima Repubblica e che era propiziato, diciamo noi, da un comune terreno culturale di ampio respiro, che permetteva al politico e all’intellettuale, di dialogare. Ora il dialogo è sempre più difficile. Tanto più, permettete un ultimo pensiero malizioso, che ben presto il cantore di gesta vedrà assunto in ruolo un soggetto molto più duttile e abile e veloce dell’intellettuale, ovvero un bel rappresentante dell’AI, magari in affascinante sembianza umana. Al di là di ipotesi troppo ardite sul futuro, senz’altro il libro di Caravale rende con chiarezza un percorso che abbiamo appena accennato e che apre più domande di quante siano le risposte. Di sicuro, possiamo dire che la crisi del rapporto fra intellettuale e politica, un primo pomo avvelenato lo ha prodotto, ovvero, la scomparsa del passato e l’irrilevanza del futuro. Un risultato mica da poco.

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  1. Grazie dell’attenzione e dell’approfondita disamina sul libro che evidenzia come oggi sembra interrotto il dibattito indispensabile fra intellettuali, politica e pubblico, anello indispensabile per ogni crescita culturale della nostra società.
    Lucia Bruni e Federico Napoli di Perseo Centroartivisive
    Perseo Centroartivisive – Firenze –

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