Diario d’agosto: i suicidi in carcere, le gaffe del ministro, il bla bla sui giornali

I problemi della carcerazione devono essere affrontati soprattutto “fuori”

11 agosto. Pare che la morte di Susan John, detenuta nel carcere di Torino, sia stata causata da un digiuno prolungato, un rifiuto totale di acqua e cibo. Susan, quindi, non stava protestando, si è semplicemente ammazzata. Susan, però, ha scelto una morte lunga e dolorosa. Non sono più sorpreso dai suicidi in carcere, la morte, infatti, è l’ultima, estrema, forma di liberazione, in un luogo, il carcere, dove la regola è l’annullamento disciplinare dell’individuo, la sua docile infantilizzazione. L’ultima, e drammatica, risorsa del bagaglio di tutele.

Adriano Sofri, nell’introduzione al bel libro di Francesco Ceraudo sulla medicina penitenziaria (Uomini come bestie, Pisa, 2019), qualche anno fa scrisse: “Smettere di chiedersi perché tanti detenuti si suicidano, e interrogarsi sul perché ‘gli altri’ non si uccidono”. Già, gli altri. Poi prosegue: “È qui la verità nascosta da cui far riaffiorare la stupidità abituale in cui è sprofondata, e da far luccicare in favore degli esseri umani e della loro tenace resistenza”.

Certo, una cosa è togliersi la vita velocemente, l’altra è scegliere la via dolorosa del rifiuto di cibo e acqua per tanti, troppi giorni. Voler vivere, voler morire. Sempre Sofri: “Chiusi in gabbia, destinati a essere braccati e ricatturati sempre, come animali da zoo, umiliati nella dignità, oltraggiati nell’intelligenza, castrati e mutilati nel corpo: che cosa conserva in costoro un attaccamento alla vita più forte dell’induzione metodica alla morte che respirano con ogni boccata della loro aria?” Susan John era entrata in carcere il 21 luglio. Non ha mai toccato cibo e acqua. Ha rifiutato le terapie e il trasferimento in ospedale. Nessuno “fuori” dal carcere ha mai saputo. Provate a immaginare. Provate, ora, a immaginare gli altri, quelli che sono ancora vivi.

12 agosto.

Proviamo a leggere le reazioni sui quotidiani. I commenti si sprecano. Dopo tre suicidi in carcere, Susan e Azzurra, due donne a Torino (Susan si è lasciata andare “lentamente”: avverbi a casaccio) e un uomo al Sud, i quotidiani scivolano maldestramente sulla consueta patina di retorica & buonismo. Il panorama è interessante: si va dalla scoperta dell’acqua calda alla banalizzazione di una metastasi istituzionale.

La notizia è sulle prima pagine: “Nelle carceri muore il diritto”; “Uccidersi è un fardello di dolore”; “Ho capito il carcere: il luogo dove lo Stato viola la legge; “Suicidi di Stato”; “È tempo di misure alternative”; “Schiacciati dal carcere”; “Lo Stato ha ucciso Susan”; “Punire il reato non la persona”; “Una grande piaga”. Emergenza, emergenza – concludo – come un mese fa, un anno fa, dieci anni fa. Direbbe Greta: bla bla bla!

Nel frattempo, il ministro Nordio, in una personale dialettica tesi antitesi ma senza sintesi, piazza il suo innovativo Piano Carcere: detenzione differenziata in caserme dismesse. Differenziata? Come la raccolta dei rifiuti! Nordio è stato fischiato dai detenuti delle Vallette. Gira e rigira si torna, infatti, al punto di partenza: carcerazione & rieducazione – mai ha funzionato, ma la colpa, come si sa, è dell’Avverso Fato. La metafisica delle pene alternative. Un Piano buttato lì, senza economia di comprensione, copertura, e coordinamento.

Bisogna sempre ascoltare chi il carcere ha vissuto: da dentro e per anni. Salvo, nel Mar di Retorica, il bel commento sul Manifesto di Susanna Ronconi che parla del carcere e del suicidio delle donne. “Il carcere delle donne è segnato da dolore al pari di quello degli uomini, ma non nello stesso modo”. C’è un doppio stigma, una doppia sofferenza “che opprime il carcere femminile, costruito dentro un universo maschile”. È la deprivazione della dimensione che le donne portano su di sé, per storia, ruolo sociale e cultura, la bellezza, la responsabilità, il peso delle relazioni affettive, famigliari, amicali. “Questa sofferenza è anche più grande quando la relazione negata è quella materna”.

Ministro Nordio, nella sua algida dimensione di sostenitore della “detenzione differenziata”, i cassonetti dell’esecuzione di pena, intanto parta da qui: l’abolizione del carcere delle donne. Le donne in carcere sono circa il 4% del totale della popolazione detenuta. Pensi alla bella figura che farebbe! Con immutata stima.

13 agosto.

Penso che Nordio sia riuscito a compiere un vero miracolo. Ha incasellato in poche ore un così energico numero di errori e gaffe seriali che il dramma delle carceri è addirittura passato in secondo piano.

I fatti. Il Piano Carceri delle caserme dismesse è impraticabile a detta di tutti. Nordio escluso. Il Governo ne aveva una conoscenza talmente superficiale che il ministro della Difesa Crosetto, il titolare delle caserme dismesse, è cascato dalle nuvole. Nordio poi ha parlato di assunzioni di personale in vista dell’attuazione dell’impossibile Piano di cui sopra, irritando i sindacati di polizia penitenziaria. Passa qualche ora, a sorpresa, nel carcere torinese del doppio suicidio e se ne esce dichiarando che la sua non è stata una visita ispettiva – non informa cioè su quanto è accaduto a Susan e Azzurra, le due detenute che si sono tolte la vita. Infine, colpo di fantasia, paragona i suicidi nelle carceri italiane con quelli di due gerarchi nazisti al processo di Norimberga.

C’è da dire che Nordio ha fatto tutto il possibile per attirarsi le critiche. Così tante che si parla solo del gaffeur, e non del carcere. Sul mio taccuino annoto velocemente: a lui, il Premio Capro Espiatorio Estate 2023. Se lo merita!

14 agosto.

Continua, in tono affievolito, il dibattito sulle politiche carcerarie del Governo: l’ormai famosa “detenzione differenziata”, proposta dal ministro. E ancora si nota una certa confusione. Tra i compiti istituzionali di un ministro di Giustizia non sono mica compresi il mantenimento dell’ordine pubblico, la repressione del crimine e la sicurezza. Questi sono compiti – più correttamente: responsabilità – del ministro dell’Interno. Il ministro di Giustizia deve garantire i servizi per l’amministrazione della giustizia e (soprattutto tramite il Dap) il corretto funzionamento del sistema carcerario ex articolo 27 della Costituzione. Nordio stesso a volte si confonde e parla di sicurezza della società: spiacevole segno dei tempi.

15 agosto.

Si parla ancora di carcere sui quotidiani. È Ferragosto, festa dell’Assunta. Giorno dedicato al riposo e a pranzi pesanti e abbondanti libagioni. Tradizionalmente rivolto ad approfondire le condizioni detentive nelle carceri italiane. Tranquilli – penso – un Alka-Seltzer e passa tutto. Velocemente.

Se non si comprende, infatti, che i problemi della carcerazione devono oggi essere affrontati soprattutto “fuori”, il rischio di girare a vuoto diventa molto alto, contribuendo al più alla crescita di una particolare “professionalità” sui diritti dei detenuti, frustrante per chi la pratica. Da anni la situazione all’interno degli istituti penitenziari è la stessa, al massimo peggiora. La cornice giuridica ha fatto qualche passo in avanti, la realtà, invece, è tornata ai tempi precedenti l’entrata in vigore del primo regolamento penitenziario (1975).

Le ricerche etnografiche sulla popolazione detenuta in Italia sono chiare: la stragrande maggioranza dei detenuti è dentro per reati minori, o legati al mercato della droga. I detenuti pericolosi (reati di sangue, organizzazioni criminali) sono invece una piccola minoranza. Le patrie galere sono colme di marginali, gli extracomunitari, i poveri, i “disadattati”, i “tossici”: non consoni, quindi, a vivere nelle città falsamente Deluxe del nostro modello di sviluppo; a maggior ragione oggi che il turismo internazionale sta diventando l’ultima risorsa di un Paese sempre più economicamente allo sbando.

Michel Foucault ha sempre messo in guardia dall’affrontare il carcere (la punizione) da un punto di vista che non fosse quello di esprimere preoccupazione (anche nella forma di lotta politica – per Foucault fu il momento dei GIP) verso l’esigenza – oggi diremmo populista, o “panpenalista” – di creare “corpi docili” e di trasformare il disagio sociale e alcuni illegalismi in “delinquenza”: insomma, la società disciplinare in tutto il suo splendore. Una società che annulla tecnicamente il conflitto sociale e che non si limita agli istituti di pena, ma che si allarga con la diffusione di un potere sempre più pervasivo e occulto. Un carcere senza “delinquenti”, difatti, non potrebbe esistere, ma il carcere è necessario anche a un determinato sviluppo economico.

“Deve essere fatto un lavoro sull’anima del detenuto, il più spesso possibile” – denuncia Foucault in Sorvegliare e Punire. “La prigione, apparato amministrativo, sarà nello stesso tempo una macchina per riformare gli spiriti”. L’aspetto più intimo della rieducazione! E le tecniche disciplinari si sprecano: non ce ne accorgiamo neanche più. La penalità non serve neanche tanto alla repressione degli illegalismi, quanto a differenziarli, come nel caso della detenzione differenziata, per renderli utili ai meccanismi di dominio.

Il dilagare dei problemi di salute mentale dentro il carcere è la diretta conseguenza del disagio esterno agli istituti di pena, fattore questo di normalizzazione della diversità. Non serve la cura, ma la solidarietà. Non servono gli psicofarmaci o i reparti psichiatrici, ma la condivisione di scelte controcorrente di liberazione terapeutica, prevista dalla stessa Corte Costituzionale. Non occorre riaprire gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, bisogna andare nella direzione opposta, concentrandosi ancora una volta su cosa significhi la follia, una delle tante messe in scena della marginalità sotto il tappeto dei modelli di sviluppo. Perché la follia non esiste: esiste però il disagio di vivere dentro, o fuori, un carcere. Esiste il reato.

Darsi da fare solo dentro il carcere, e non sto parlando, beninteso, del volontariato umanitario carcerario, quindi, cambia poco. Sono battaglie nobili ma – ahimè – inutili: e i fatti lo dimostrano. Non dico che non siano importanti, anzi. Vanno accoppiate ad analoghe lotte “fuori”, di natura diversa, mettendo insieme aspetti che oggi sembrano lontani e non associabili. Il carcere altrimenti sarà sempre “sovraffollato”: in teoria e in pratica, per il cosiddetto “illegalismo chiuso”. Il carcere, infatti, è anche fuori, nella società dei liberi, dove è sempre più necessario lottare per i diritti negati: impedendo, per esempio, la creazione di nuovi reati e contrastando la crescente spinta a trasformare semplici illegalismi e finanche il disagio sociale in delinquenza.

È fuori, nella società dei “liberi”, che i diritti umani – nel senso largo, contenente cioè il principio costituzionale di dignità della persona – dovrebbero essere tutelati; per evitare la carcerazione dei ceti della marginalità indisciplinata; per scongiurare a noi stessi, classe “dominante”, la perdita di diritti di livello costituzionale; per non ritrovarsi con progetti come quello della “detenzione differenziata”; per salvare quella cosa strana, in via ancora di definizione, che si chiama stato di diritto.

16 agosto. I quotidiani non escono. Peccato! Il pensiero comunque corre a Susan e Azzurra, due persone che non ci sono più. “E prenditi una vita che mi sfianca” (S. T.)

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