Dialoghi eventuali/2

Carolina Richter e Arturo Schopenhauer, tra amore e volontà

“Dallo a me”, invitandola a sfilarsi il cappotto. Mentre l’aiutava nell’operazione, non poté fare a meno di osservare le spalle nude, la vita stretta e la perfetta armonia dei suoi fianchi. La differenza d’età e il vestiario potevano apparire sconvenienti, ma la misantropia, camuffata da saggio anticonformismo, gli conferiva un notevole aplomb. La fece accomodare: “Grazie, sempre galante”. “La solita cioccolata con cannella e vaniglia?”, chiese Arturo. “Sì, grazie. Sai davvero come viziarmi”, rispose Carolina. Per un volta Watt e la sua macchina a vapore erano stati di grande utilità (nella macinazione dei semi di cacao), consentendo di arrivare al cuore passando dalla gola. Ascoltando Carolina che gli raccontava di come fossero andate le prove del coro la sera precedente, gli tornò alla mente un’altra donna, curiosamente omonima della sua ospite.

La signorina Jagemann, amante del Gran Duca di Weimar, era un’attrice. Una dozzina d’anni prima aveva scatenato una violenta tempesta ormonale nell’aspirante filosofo. Arturo, ricordandone il viso perfetto come un ritratto di Tishbein, provò una fitta al cuore di dolce nostalgia. Per la volontà di vivere e la sua oggettivazione visibile, il corpo, gli stimoli esterni possono essere positivi o negativi. Proprio perché ogni felicità è negativa, accade che, quando una volta tanto le cose ci vanno perfettamente bene, non ce ne accorgiamo e tutto ci passa davanti leggero e diafano, fin quando non scompare. Allora la mancanza, che percepiamo come positiva, diventa espressione della felicità svanita e ci rendiamo conto che abbiamo mancato di trattenerla. Da questo momento, alla privazione, si aggiunge il rimpianto. “Et voilà le chocolà!”, disse loro Michel, interrompendo il tete-a-tete. “Scusa Michel, mi porteresti anche gli scacchi?”. “Ben sicurò, Arturò”. Benché cosmopolita e nonostante il ricordo del padre e del suo amore per Voltaire, quella u così morbida, che storpiava la pronuncia del suo stesso nome, lo irritava dannatamente. Dopo Bonaparte, pensò con amarezza agli Ugonotti, non per la loro decimazione un quarto di secolo prima, quanto per la conseguente diaspora che si risolse con la massima concentrazione dei fuggiaschi proprio a Berlino. Un’occupazione francofona antesignana dell’esule di Sant’Elena, ancora più dannosa perché silente e pervasiva della vita sociale, economica e culturale della città.

Nell’intero quartiere, il sassone, così come la sedicente borghesia “illuminata”, sembrava inchinarsi all’avanzata della lingua dei trovatori. Ormai questo miserrimo gergo romanzo, questa pessima mutilazione di parole latine, questa lingua che avrebbe dovuto guardare con profondo rispetto alla sua più antica e assai più nobile sorella, l’italiano, rischiava di adombrare i sonetti, i trionfi e le canzoni dell’amato, sommo Petrarca. Questa lingua che aveva come esclusiva peculiarità il disgustoso suono nasale (“en”, “un”, “in”) o il singhiozzante accento così indicibilmente ripugnante sull’ultima sillaba, mentre tutte le altre lingue hanno la penultima lunga che produce un effetto così delicato e pacato, codesto idioma, nel quale non esiste metro ma soltanto la rima, avrebbe dovuto costituire la forma della poesia? Questa lingua meschina veniva addirittura posta come “langue classique” accanto al greco e al latino: follia! E considerando che Arturo conosceva ben sette lingue, a buon titolo poteva gridare allo scandalo. Mentre stava per invocare il biasimo dell’intero caffè ad umiliare gli spudorati fanfaroni francesi, Michel lo folgorò con un “Desolatò Arturò, ma mi hanno volatò (participio di voler, rubare) les echecs!”. “Non importa Michel…” rincuorò entrambi Carolina di rincalzo, “Giocheremo a Dama.”. “Bianchi o neri, Arturo?”. Ed estrasse la pila di pedine dall’incavo laterale della scacchiera.

(Continua…)

Giuseppe Ugolotti

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