Def pre-elettorale: l’Italia non è pronta alla nuova ondata dell’innovazione tecnologica

Latitano le grandi voci di cittadinanza come la scuola e la sanità

Il Def, Documento di Economia e Finanza presentato in Consiglio dei Ministri è’ uno degli atti principali di Politica Economica del Governo che dovrebbe descrivere al Paese lo stato dell’Economia e della Finanza Pubblica e dovrebbe dare le previsioni per il prossimo futuro. Un quadro generale per capire dove siamo e dove stiamo andando.

Questo Def, così maledettamente pre-elettorale, è stato di fatto depotenziato. La situazione è troppo difficile per i conti pubblici e quindi poco rappresentabile in campagna elettorale. L’escamotage è stato rappresentato dalla “volatilità della politica europea”.  Non si sa chi vincerà le elezioni europee, la legislatura europea è alla fine e quindi non è possibile capire quali saranno i margini di manovra delle nazioni, così ora si chiamano, di fronte al nuovo sistema europeo e alle nuove direttive sulla gestione del debito.

In effetti così non è. Molte cose sono già chiare. Ma meglio stare al gioco e occuparsi più che dei decimali delle grandezze economiche e finanziarie del tema politico economico del paese.

E qui la cosa principale che emerge è la bassa crescita economica e la bassa crescita della produttività. Sono due corni del dilemma che vanno presi assieme e vanno insieme gestiti. Sulla crescita è presto detto. Gli stimoli da spesa pubblica sono tutti in campo: dal 110%, di cui poi parleremo, al PNRR, le risorse messe in campo dal Covid in poi sono notevoli. Ma dopo la “ripresa post Covid” siamo ritornati alle “crescitine” dell’1%. Le previsioni sono dell’1% nel 2024, 1,2% nel 2025, 1,1% nel 2026 e 0,9 nel 2027. Siamo sempre lì. Per crescere di più ci vogliono più risorse, meglio se ben qualificate, da utilizzare. In primo luogo, le risorse umane.

E allora va recuperato in produzione il mondo dei ritirati dal lavoro, dove c’è da recuperare esperienza e competenza che non va esclusa. Mettendo finalmente fine alla “novella” dei vecchi che tolgono lavoro ai giovani (che peraltro sono sempre meno!). Quindi va aumentata la forza lavoro immigrata che deve essere formata per poter dare un sensibile contributo di crescita. Poi, oltre alla quantità ci vuole la qualità che si lega all’aumento della produttività. E qui c’è solo da “riformare la formazione”, ancora troppo guidata da vecchi riti e da vecchie istituzioni, e da aprire il sistema, tutto sia pubblico che privato, alla “nuova ondata dell’innovazione tecnologica”. Siamo di fronte ad uno tsunami tecnologico: o stiamo in questa onda o verremo spazzati via dal novero dei paesi avanzati. Ed invece siamo ancora troppo lenti, troppo titubanti, troppo sospettosi.

Il secondo tema è la gestione del debito e della spesa pubblica. Spendiamo in interessi quanto, più o meno, ci costa il sistema dell’istruzione pubblica, il sistema sanitario scende come peso sul pil e oramai spendiamo cifre per abitante drammaticamente sotto i più avanzati paesi europei. Il debito è elevato e per i prossimi 4 anni non darà segni di abbassamento rispetto al Pil, anzi ci sarà una leggera crescita. Il deficit parte da un elevato 7,2% e solo fra 4 anni arriverà al 3%.

Insomma, i conti tornano poco, la spesa pubblica è falcidiata dagli interessi e le grandi voci di cittadinanza, quelle vere come la scuola e la sanità latitano. Il Governo scalpita: deve contentare con tagli di tasse e condoni e condonicchi il “nocciolo duro” di chi l’ha votato. Ed è abbastanza naturale che sia così. Ma con questi conti si va da poche parti. E allora? Allora occorre fare una “cruenta spending review” che ribalti i “sepolcri imbiancati” della spesa pubblica italiana per ridare al Bilancio una funzione innovativa in grado di rivedere, fra settori e anche all’interno di ogni settore, il rapporto fra “spesa storica” e “spesa giusta”. Non si ricostruisce una Finanza equilibrata stando dentro alla “storia di questo paese”. Non è più possibile contentare tutti.

Occorre fare delle scelte di priorità, rivedere i canali di spesa e valutarne efficienza, efficacia e meritorietà e quindi ristabilire un rapporto trasparente con l’opinione pubblica. I voti si prendono se si governa bene la comunità, la nazione, lo Stato e non se si dà un contentino, più o meno piccolo, a ogni lobby e a ogni gruppo di pressione del Paese. E’ chiaro che questo sistema richiede un Governo e una opposizione diversi: che si affrontano sulla validità di un programma e non sulla somma dei “regali e favori” da distribuire a destra e a manca. Ma non dobbiamo perdere la speranza e più che altro l’occasione che deriva dalla “impossibilità crescente” a continuare nel tradizionale, perdente, “tran tran”.

Per diminuire il peso del debito, ridurre il deficit e crescere di più ci vuole una “nuova Italia”. E non ci deve essere pezzo del Paese che non venga chiamato a dare un contributo. Che, attenzione, è certamente anche un contributo finanziario ma è e deve essere in primo luogo un contributo di idee, di impegno e di creatività. L’Italia moderna, alla fine ricca e avanzata, è stata costruita con questo “slancio”. E’ ora di ritrovarlo: non penso che potremo andare ancora avanti con l’assalto alla diligenza della spesa pubblica.

E qui, alla fine, si collega il tema, più volte ricordato da Giorgetti, del “peso del 110%” sul debito pubblico del paese nel prossimo quinquennio. E della maggiore difficoltà indotta da questo “lascito” nel gestire i conti di questa legislatura in corso. Su questo punto si possono rilevare tre cose. La prima è che il 110%, che vale 160 miliardi oltre ai 59 degli altri bonus, è una tipica spesa per consenso. Quella appunto di cui si è parlato e che ha distorto il Bilancio dello Stato in questi anni. E’ una spesa a sostegno di un beneficio privato, essendo quello pubblico solo una piccola parte marginale, che ha drenato risorse elevate e senza controllo.

La seconda è che è stata congegnato in maniera tale da favorire piccole e grandi truffe. Se si concede il 10% in più della spesa al compratore, viene meno il “controllo” del prezzo di una prestazione. Che, in una economia di mercato, è sempre frutto del “bargaining” fra le parti. La terza è che tale investimento ha tolto spazio ad altri investimenti, questi si pubblici nel vero senso della parola (sanitari, scolastici, ambientali, energetici, infrastrutturali) che avrebbero potuto avere lo stesso impatto economico ma avrebbero resto il sistema paese più forte e più resiliente.

La situazione dei conti, a cui si aggiunge il “lascito velenoso” del 110%, toglie il sonno al Ministro Giorgetti. Lo comprendiamo e per qualche verso siamo solidali. Ma torniamo a ripeterlo, passate le elezioni, cerchi di far abbandonare al Governo la logica della spesa pubblica come “strumento di cattivo consenso” e cerchi, con la dovuta e accettata gradualità, di spostarla sulla logica della spesa pubblica come “strumento di innovazione” del paese e quindi di rafforzamento del “consenso buono”.

In foto Giancarlo Giorgetti

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