Quando si dice gli interessi particolari, ben lontani dalle lobby generali di marca anglosassone. Cosa abbia fatto cambiare idea ai senatori che avevano semplicemente cancellato con un colpo di spugna il tetto agli stipendi dei super manager pubblici, è presto detto. La minaccia dell’esecutivo di farli lavorare sull’argomento per tutto agosto. I senatori allora, davanti al rischio di restare in palazzo Madama fino a data da destinarsi, hanno calato le brache. Ma resta l’ennesima macchia dei rappresentanti di un ramo del Parlamento che hanno dato l’ultima prova di fregarsene bellamente della conclamata sensibilità del Paese sulle assurdità remunerative di uomini che in molti casi sono all’origine del fallimento delle società da loro amministrate.
Al termine di una maratona durata fino a mezzanotte è stato trovato comunque l’accordo sui compensi dei manager pubblici: tutti quelli che non rientrano già nel tetto introdotto con il Salva-Italia (circa 300mila euro, quanto guadagna il primo presidente della Cassazione) al prossimo rinnovo si vedranno sforbiciare del 25% i compensi, «a qualunque titolo determinati». Alla fine dunque si è trovato un compromesso col taglio per tutti i manager delle società pubbliche quotate e per quelle non quotate che emettono titoli non azionari (e loro controllate). Ma quanta fatica e che incazzatura ha dovuto mostrare l’esecutivo e in particolare il ministro Franceschini.
Dopo questo evidente, sempre più clamoroso distacco tra il ramo di Parlamento dai capelli grigi e il sentire della nazione, hai voglia a credere di aver risolto il problema della spesa pubblica abolendo le Province. Qui ci vorrebbero senatori a tempo più che a vita.