L’11 gennaio del 1999, muore Fabrizio de Andrè. La mia gratitudine va a quella che lo stesso autore descrive come un’“esperienza di vita. Ed è stata una vita (non è che dimostro di avere la mia età attraverso la carta d’identità), credo di averla vissuta”. Eviterò di conferire ad un carattere meravigliosamente controverso, l’aurea postuma che ingiustamente si è legata al suo nome, frutto di una moralità che non lascia scampo nemmeno ai più dissoluti. È la triste usanza legata al ricordo di chi non c’è più: per chiunque commemorazioni perbeniste ed ipocrite. Detto da Dori Ghezzi, “La leggenda del santo cantautore non sarebbe piaciuta neppure a lui. Era sicuramente più cazzaro che santo”, vorrei perciò contribuire a svincolare il suo nome dal tabù che lo accompagna, sulla scia (in parte) di quanto pubblicato da Rolling Stones pochi mesi fa.
Liberato dall’idealizzazione post mortem, si riscoprirebbe l’autentica umanità di de Andrè, l’uomo che è principio e forza del lascito a cui siamo tanto affezionati. E’ con la consapevolezza che ho imparato a capirlo, con la lenta scoperta del lato oscuro delle cose, quando tutto si è fatto più complicato, e non posso pensarlo diversamente proprio rispetto a quello che ha cantato. Fatta eccezione per i brani inflazionati (e sommersi da messaggi qualunquisti di cui sono immeritatamente diventati portatori), non è ben chiaro come attraverso una lettura dell’opera completa del cantautore, si possa alla fine approdare al verdetto che esonera l’uomo de Andrè da qualsiasi debolezza umana. Trovo anzi confortante il saperlo ambiguo e violento, lo preferisco all’immagine che lo vuole illibato, e a chi lo ha pensato così limpido ed intoccabile vorrei provare che ha avuto al contrario un carattere discutibile. Ed ora è davvero difficile sradicare l’idea che ne abbiamo, dopo anni di lodi, dediche, omaggi via tubo catodico, da cui non è emersa una sola nota di demerito, un solo accenno di umanità. Serve un po’ di onestà intellettuale per rinutrire la nostra memoria da pesci rossi, accettare la natura delle cose perché il suo lavoro, l’eredità di canzoni che ci ha lasciato, basta ed avanza. Tutta la vita non ha fatto che demistificarsi, il minimo che gli dobbiamo è liberarlo dalla crosta superficiale che la cultura populista degli ultimi anni ha iniziato a sedimentare.
La mia premessa concorda con quanto raccontato dagli autori di Rolling Stones, ciò che per me cambia dunque, sono le conclusioni. Non è sufficiente smascherare il suo carattere contraddittorio per definire de Andrè ‘tutto sommato con ben poca originalità, un sopravvalutato’, perché in questo caso si sfocia in un revisionismo che ha come scopo di demolire, non di guardarvi francamente. De Andrè è nato privilegiato, ma ha cercato di vivere con distacco dalle fortune, ha ostinatamente portato avanti una scelta: quella di vivere in solitudine e di cantare un’umanità sconfitta che aveva capito. La Genova di cui ci ha parlato de Andrè è quella genuina, liberata dai tabù, complicata come soltanto una città di porto sa essere.
La Genova degli abbandoni, pittoresca e pericolosa, descritta senza finzione e rilasciata in poesia, una poesia che parla tutte le lingue e ascolta tutti i suoni del mondo, perché viene dal mare e si mescola sulle banchine. E’ sinceramente che in primis considero de Andrè allo stesso modo di Fernanda Pivano: “un poeta di una tale levatura che scavalca i secoli”, probabilmente uno degli ultimi. Su di lui si sono scritti e potrebbero scriversi infiniti altri pensieri, ma sempre tenendolo ‘giù dall’altare’, pensandolo tra il lungomare e le vie strette intorno al Porto Antico. Ecco, tutto questo l’ho scritto per ringraziarlo, e “per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”.