Al di là delle intenzioni “populiste” dei partiti promotori, laddove si abusa spesso dell’aggettivo in assenza di convincenti argomentazioni, il tema della riduzione degli stipendi dei parlamentari e più in generale della riduzione dei loro svariati privilegi, resta centrale in tempi di crescente disaffezione verso la cosa pubblica.
Si controbatte sempre al ritmo del refrain dei presuntamente necessari “costi della democrazia” come se per essere democratica una società non dovesse anche (forse soprattutto) cercare di limitare al massimo le differenze economiche e dunque sociali tra i propri appartenenti e cittadini. Se davvero la qualità democratica fosse direttamente proporzionale all’emolumento profuso a chi la rappresenta elettivamente, quella italiana dovrebbe surclassare tutte le altre in fatto di servizi e accessi alle dimensioni formative (conseguenza e principio del “governo del popolo”). Ma sappiamo invece del contrario: la classe politica italiana è la più pagata al mondo (stando ad una recente statistica apparsa sui media), mentre in fatto di funzionamento dei meccanismi repubblicani non è necessario spenderci oltre, stante la proverbiale difficoltà del sistema Italia.
I custodi degli “stipendi d’oro” recitano però un altro mantra: l’alta corresponsione di chi governa sarebbe garanzia di selezione al rialzo della classe dirigente dalla società civile. Ma è davvero così? La storia, almeno fino ad oggi, insegna l’esatto contrario; ovvero dagli anni ’50 e ’60, quando lo stipendio medio di un parlamentare era al massimo tre volte tanto quello di un operaio della Fiat, siamo arrivati ai giorni nostri. Dove il reddito dei politici nella loro accezione più ampia, vale mediamente dieci, quindici volte tanto quello di un dipendente comune. E dove la corruzione, in base ai movimenti della magistratura ed alle sentenze dei tribunali, è andata di pari passo con l’accrescimento dei pagamenti regolarmente ottenuti. A significare che una paga molto alta non ti preserva automaticamente dalle, diciamo così, tentazioni. Si vorrebbe insomma una classe politica corrisposta attraverso le cosiddette “regole del mercato” ma la cui selezione poi, spesso esulante i fondamentali precetti meritocratici, è fondata sulla cooptazione personale o sull’obbedienza più o meno cieca alle congiunture di coalizione (quando si verificano).
Qui non si tratta di buttarla sulla “casta” (che non esiste purtroppo nel nostro Paese una categoria che non difenda pervicacemente sempre e comunque i propri interessi particolari anche a discapito di quelli generali) ma di invocare da parte di chi ha più responsabilità una testimonianza personale di riduzione di una spesa pubblica che sola, simbolicamente, potrebbe andare nella direzione di ricucire quella distanza sentimentale (e consensuale) apparentemente incolmabile tra Istituzioni e persone.
Può venire in aiuto nel dibattito una serie di pubblicazioni che cercano di spostare la lancetta morale dall’atto volontario dunque caritatevole, ancora retaggio di una concezione fideistica dei rapporti in società, al dovere civile come comportamento di giustizia in una comunità diseguale; ultimo in questo senso editoriale (anche se il tema trattato è ancora più scottante riferendosi al contrasto tra la fame nel mondo ed il superfluo di tante esistenze) è il libro del filosofo della scienza Peter Singer (il saggio si chiama “Carestia, ricchezza e morale”, edizioni Università di Oxford, recensito sull’ultimo numero de la Lettura, inserto culturale settimanale del Corriere della sera). Per dubitare di chi si riempie la bocca di “bene comune” e non fa seguire atteggiamenti concreti all’enunciazione teorica.