Danni da Covid: il saccheggio infinito dei siti archeologici

Parigi –  Tra i danni collaterali del coronavirus va ormai citato il forte aumento dei saccheggi dei siti archeologici che l’epidemia del Covid-19 sta lasciando con sempre meno protezione. A lanciare un grido d’allarme è stata l’Unesco dopo aver constatato negli ultimi mesi una sorprendente impennata di  scavi illegali di siti archeologici in numerosi paesi, dalla Libia all’Iraq, dalla Siria allo Yemen, dal Magreb al Mali. Esperti riuniti nel gruppo ATHAR, specializzato nella storia e archeologia  dal Magreb, hanno dal canto loro segnalato il forte aumento delle vendite illegali su internet di opere provenienti da scavi illegali.

A 50 anni dalla convenzione internazionale che, almeno sulla carta, vieta ogni forma di commercio illegale di beni culturali, il mercato di pezzi archeologici o d’antiquariato sembra godere di un’invidiabile salute: secondo gli esperti sui 64 miliardi dollari generati dalle opere d’arte, il 10% sarebbe generato dalla vendita di oggetti trafugati illegalmente dal loro paese d’origine. Dopo la droga e le armi i beni culturali sono al terzo rango delle vendite illecite nel mondo. Sono una fonte di entrate che negli anni passati ha costituito il 20% delle risorse finanziari  dell’Isis e che ancor oggi continua a foraggiare terroristi o gruppi di fazioni armate in guerra tra loro. Uno dei paesi più presi di mira è, secondo gli esperti la Libia e le sue meravigliose vestigia archeologiche.

Come ricordava su “France Culture” l’archeologo francese Vincent Michel,  le oltre settemila monete antiche che l’Italia aveva reso alla Libia sono state recentemente rubate a Bengasi, facendo così scomparire un inestimabile patrimonio del paese. Ormai temo, ha detto, saranno state fuse  e trasformate in lingotti.

Sia secondo Michel che per il vice direttore della divisione patrimonio dell’Unesco, Lazare Elound Assomo,  il furto di quelle che ormai vengono chiamate le “antichità del sangue” (perché si trovano in paesi in guerra) è aumentato non tanto nei musei quanto nei siti archeologici. Un elemento che a loro avviso aggrava la situazione perché mentre nei musei i pezzi sono repertoriati, lasciando così  la speranza di poterli recuperare,  quelli saccheggiati nei siti non lo sono e quindi ritrovarli è quasi impossibile.

Il mercato, alimentato sia da piccoli trafficanti che da reti organizzate, si è allargato non solo perché, per colpa del Covid, molti siti non sono protetti, ma anche  per la crescente facilità che internet offre allo smercio illegale delle opere d’arte. Che possono anche contare sulla presenza di “porti franchi”, come  Ginevra, Lussemburgo, Bangkok o Abu Dhabi dove transitano indisturbate non solo opere d’arte autorizzate all’espatrio ma anche quelle uscite illegalmente in attesa di venir smerciate in qualche paese del mondo. Che può anche essere europeo. Spesso, racconta France Culture, dopo un lungo periplo: come una serie di statue che dalla Cirenaica sono passate dall’Egitto agli Emirati Arabi Uniti prima di arrivare alla Spagna via la Germani. Tra le piattaforme più “ricettive” secondo gli esperti vi è Israele mentre in Europa puntano il dito contro Belgio e Spagna.

Per cercare di irrobustire la lotta a questa piaga che tanto danno fa non solo ai patrimoni dei paesi saccheggiati ma anche a quello mondiale, l’Unesco punta ora non solo a una revisione delle norme ma soprattutto in una più stretta collaborazione con Interpol, l’Organizzazione mondiale delle dogane, Unidroit, acheologi e direttori di musei.

Foto: pezzi rubati recuperati dai carabinieri

 

 

 

 

 

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