Corsi di lingua, percorsi di inserimento. Ma soprattutto pace. Vivere insieme.
E’ questo il messaggio fondamentale che gli occupanti di via Slataper hanno lanciato nuovamente verso le istituzioni territoriali, in particolare verso l’amministrazione comunale, stamattina nel corso di un incontro con la stampa.
Dopo circa un mese di precarietà assoluta, 4 sgomberi, una violenta azione dei vigili urbani nella tendopoli simbolica montata davanti alla Fortezza, il gruppo di richiedenti asilo (uomini, donne, bambini somali, eritrei, etiopi) cercano di nuovo il dialogo, un confronto capace di trovare una soluzione non temporanea alla loro vita.
Parlano in fretta, cercando di dominare l’emozione, cercando di trasmettere un messaggio urgente: “Non siamo clandestini – ripetono più volte – siamo richiedenti asilo, abbiamo i documenti”.
Il punto è proprio questo. Il gruppo, circa novanta persone, è da anni alle prese con una situazione kafkiana. A partire dai documenti: quando arrivano in Italia, dopo gli accertamenti compiuti a mezzo di interpreti sul luogo di sbarco, lo Stato italiano dà loro un foglio che gli permette di spostarsi sul territorio: una sorta di “passaporto”. Con questo documento possono anche uscire dai confini nazionali, ma il soggiorno negli altri paesi europei è temporaneo, all’jncirca sui tre mesi.
Dopodichè, vengon “rimpatriati” in Italia, ovverossia nel paese in cui sono approdati. E la storia ricomincia. Per spezzare questa spirale infernale, sarebbe necessario che nel nostro Paese esistesse la possibilità di una vera accoglienza, come prevista dalle normative europee: corsi di scolarizzazione e lingua, reddito minimo, casa, programmi di inserimento sociale.
Un fronte su cui molto è stato fatto, ma da cui molti sono rimasti esclusi, come dimostra l’esistenza del gruppo di via Slataper. L’esistenza di un “numero chiuso” per l’accoglienza dei profughi, come spesso ha ricordato l’amministrazione comunale, non è stato certo d’aiuto alla soluzione del problema. Problema che, è bene ricordarlo, non consiste in un semplice “disturbo” per la città, ma è la sommatoria di circa novanta esistenze umane fra cui donne e cinque bambini.
La richiesta fondamentale è quella di una struttura su cui potere fare affidamento, senza la minaccia dello sgombero che li costringe continuamente a errare fra la strada e le occupazioni.
“Non vogliamo occupare – concludono – non ci piace stare nell’illegalità. Abbiamo uno status riconosciuto dalle leggi internazionali. Vogliamo solo che sia rispettato”.