Un libro di 95 pagine di piccolo formato pubblicato dalla Libreria Editrice Fiorentina nel 1951. Contiene due saggi che Giorgio La Pira ha scritto l’anno prima per “Cronache Sociali”, la rivista fondata dall’ala sociale della Democrazia Cristiana: “L’attesa della povera gente” e, in risposta alle critiche suscitate dal primo, “La difesa della povera gente”. La Pira ne colloca l’introduzione nel giorno della Festa della Purificazione di Maria (2 febbraio). Dal 5 luglio di quell’anno “il librettino”, come lo definiva l’autore, sarebbe diventato uno dei documenti fondamentali che ispirerà la sua attività di primo cittadino di Firenze.
In copertina, un disegno di Ottone Rosai raffigurante un uomo inginocchiato, lo sguardo sofferente, le mani giunte, il corpo piegato in avanti: un povero che supplica. La grafica potrebbe indurre nel lettore di oggi, che non conosce testo e contesto, una sorta di approccio pregiudiziale. Ecco un’operetta consolatoria, ricolma di buonismo cristiano, atta a suscitare spirito caritatevole e pulsioni di generosità.
Invece la sorpresa arriva subito, alla dodicesima riga del primo saggio, dopo un’introduzione che non cita parabole evangeliche, ma rapporti internazionali sull’economia mondiale. Il testo base delle sue riflessioni è un articolo dell’Economist del febbraio 1950, la “bibbia” della scuola di Manchester che ispirò il movimento liberista britannico. Nel librettino – spiegò qualche anno dopo, durante il comizio di chiusura della campagna elettorale del 4 novembre 1960 – “c’è ogni cosa scientificamente misurabile e lo citano anche in America. Studiai Keynes, fino in fondo, tutta la finanza moderna americana: la teoria dell’inflazione della deflazione; i testi diretti inglesi e francesi” e alcuni economisti italiani come il torinese Ferdinando Di Fenizio, che promosse la diffusione italiana del pensiero di John Maynard Keynes e fu tra i fondatori del settimanale «Mondo Economico» e di quello che oggi è il giornale economico-finanziario italiano più importante, “Il Sole 24 Ore».
Il frutto di uno studio attento della letteratura economica più avanzata da parte di un professore di Diritto romano non digiuno di scienza economica e, soprattutto, fresco di esperienze fatte al Ministero del lavoro come sottosegretario dell’amico e sodale Amintore Fanfani nel quinto governo De Gasperi (1948-1949). “la povera gente” sono per La Pira i disoccupati e i bisognosi in genere che si attendono “un governo mirante sul serio (mediante l’applicazione di tutti i congegni tecnici, finanziari, economici, politici adeguati) alla massima occupazione e, al limite, al pieno impiego”, esordisce. La novità assoluta che constata è che “una tecnica economica finanziaria e politica di dimensioni davvero mondiali è in via di elaborazione presso tutti gli stati proprio col fine di elevare tutti gli uomini ad un livello di vita proporzionato alla dignità della persona umana”. Anche la più autorevole voce del capitalismo storico, l’Economist, scrive che “il pieno impiego è l’imperativo categorico fondamentale di un governo che sia consapevole dei compiti nuovi affidati agli stati moderni”.
Siamo nei primi anni del dopoguerra, quelli della ricostruzione e della realizzazione di istituzioni garanti di un nuovo pacifico ordine mondiale (gli accordi di Bretton Wood crearono la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale) ispirati dal pensiero di Keynes, così come keynesiano era stato nel 1942 il rapporto di William Beveridge, terreno di coltura del nuovo welfare state britannico, da cui il Professore trae molti spunti e citazioni. In estrema sintesi, l’idea era che l’occupazione cresce “attraverso il sostegno della domanda aggregata, da ottenersi con un forte aumento della spesa pubblica”.
Concetti che rispondono all’interrogativo principale che si pone La Pira: “Piegarsi urgentemente, amorosamente, organicamente verso la sofferenza di dimensioni mondiali costituisce o no un atto essenziale di cristianesimo?”. Risposta affermativa senza se e senza ma, dato che “l’umanesimo cristiano è un umanesimo integrale anche se ordinato e gerarchizzato: investe solidalmente l’uomo dal vertice della intima fruizione e contemplazione di Dio sino alla base dell’economia”.
Lasciamo da parte il dibattito che il libretto del professore suscitò (“dette fastidio anche a De Gasperi”, raccontò, e a gran parte dei cattolici liberali conservatori del tempo) rimandando al libro “Fede, politica e profezia – L’attualità di Giorgio La Pira in un mondo in cerca di pace” a cura di Alberto Mattioli (ITL libri) . C’è ancora un paio di concetti sottolineati dall’autore che vale la pena riportare prima di fare un salto cronologico e andare a vedere che ne è della “povera gente” nel nuovo millennio.
In primo luogo – scrive La Pira – tocca al governo che deve mettere in campo “un piano organico di investimenti capaci di operare un graduale assorbimento della mano d’opera disoccupata”, perché “non basta lo stimolo all’iniziativa privata” e grazie a questa “non si opererà mai l’automatico proporzionamento”. Bisogna spendere – aggiunge – “organicamente secondo piani determinati senza lasciarsi spaventare da parole tipo pianificazione (resa famigerata dal sistema comunista, ndr.)” su “bisogni essenziali che attendono di essere rapidamente soddisfatti: energia, case, bonifiche aree depresse per l’industria”. L’errore che fa il mainstream economico conservatore è infatti quello di partire dal denaro, che è il mezzo per raggiungere il fine, che è l’occupazione.
A coloro che agitano lo spauracchio dell’inflazione, l’autore dice che questa diventa un pericolo proprio quando il denaro non corrisponde alla produzione, quando c’è tanta gente (a quel tempo 2 milioni di persone) che non lavora e quindi consuma senza aver partecipato alla produzione di beni e servizi. “Disoccupazione significa produzione mancata contro spesa fatta cioè denaro senza cose”. Con appena 200 milioni di erogazioni effettive, il Piano Fanfani sulla casa –eccone la dimostrazione pratica – ha provocato investimenti effettivi e quindi lavoro per 10 miliardi: “Per trovare i denari bisogna dare una frustata energica a tutto l’apparato economico finanziario dello stato, bisogna svegliarlo dal sonno e dalla pigrizia in cui è immerso”.
Questa realtà risulta chiara e distinta se si riesce a uscire dalle contrapposizioni ideologiche “Keynesiani, non keynesiani: i nomi non contano, contano le cose: credere che sia possibile una tecnica risolutiva (anche se con prudenza del massimo problema sociale (disoccupazione e miseria) o essere scettici intorno alla possibilità di essa ed alla efficacia risolutiva di essa: questo è il dilemma”. Sono le cose che esigono non una “contemplazione” del sistema economico e dei suoi fenomeni di automatico assestamento, “ma un rapido . decisivo intervento terapeutico ( e se fosse necessario anche chirurgico)”.
Al centro rimane “il diritto al lavoro che non è un’espressione puramente simbolica o anche soltanto giuridica e politica: è un’insopprimibile esigenza religiosa, metafisica, perciò ontologica della persona umana”. Tradotto nelle parole ispirate e poetiche del Professore: “Il lavoro come la preghiera è la vocazione dell’uomo è un senso creativo dell’uomo prosegue la creazione di Dio”. Garantirlo è “il compito nuovo dello stato moderno”.
Sono passati quasi tre quarti di secolo dalla pubblicazione del “libretto”, abbiamo vissuto i decenni della globalizzazione, delle rivoluzioni digitali, dei cambiamenti strutturali e strumentali, persino ontologici del lavoro. Abbiamo preso atto degli effetti positivi del mondo globale con la riduzione assai parziale ma significativa degli squilibri fra Nord e Sud, il miglioramento della condizione alimentare e igieniche di larghe parti del mondo, il grande salto della Cina. Al tempo dell’Attesa della povera gente la popolazione mondiale ammontava a poco meno di tre miliardi e il suo autore parlava con gli amici che incontrava per la strada dei cinque miliardi di uomini che in pochi anni il pianeta avrebbe ospitato. Nel 2022 sono già arrivati a 7, 95 miliardi.
Sotto altre forme, in modo per certi versi meno drammatico ma ugualmente inquietante, i problemi di fondo sono rimasti gli stessi. Quella scienza economica che per La Pira indicava la possibilità tecnica di vincere la disoccupazione e il bisogno in realtà si è per lo più trasformata nel corpo di guardia di un sistema capitalistico capace di continue trasformazioni e modifiche per continuare a produrre disuguaglianza ed esclusione (crf. Thomas Piketty, Il capitale del XXI secolo). Le rivoluzioni digitali (ora ci troviamo nella terza, quella che sta producendo l’Intelligenza artificiale generativa) stanno cambiando il modo di produzione dei beni materiali e immateriali.
Il Rapporto sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo (SOFI), pubblicato alla fine di luglio, dalle quattro principali agenzie delle Nazioni Unite, mostra che non ha ancora ripreso il trend decrescente vissuto tra il 1990 e il 2015 e ad oggi 1 persona ogni 11 soffre la fame (733 milioni nel 2023), evidenziando la drammatica inadeguatezza dei finanziamenti forniti dalla comunità internazionale per l’assistenza alla fame. Sono i Paesi che sperimentano il più alto livello di insicurezza alimentare quelli che hanno il minor accesso ai finanziamenti. I conflitti geostrategici, i cambiamenti climatici e gli effetti delle disuguaglianze sono all’origine di questa inversione di tendenza.
La regressione è evidente anche in un paese industrialmente avanzato come l’Italia dove stanno saltando quelle seppure insufficienti mal congegnate politiche di welfare finora attivate. Negli ultimi dieci anni il numero dei poveri assoluti è raddoppiato e l’ultima rilevazione dell’Istat mostra che fra il 2022 e il 2023 è in aumento dall’8,3% al 8,5% delle famiglie e dal 9,7% al 9,8% degli individui. In Italia alla fine dell’anno scorso c’erano 5,7 milioni di persone in povertà assoluta: 78 mila in più rispetto al 2022 e 435 mila in più rispetto al 2021. Nel 2023 i centri di ascolto e i servizi informatizzati della Caritas Italiana (complessivamente 3.124 in 206 diocesi in diverse Regioni italiane) hanno supportato quasi 270mila persone. Il Rapporto della Caritas assimila questi “volti” ad altrettanti nuclei, stimando che circa il 12% delle famiglie in stato di povertà assoluta sia stato aiutato. Il confronto con il periodo 2019-2023 mostra un aumento significativo del 40,7% nel numero di assistiti.
Le politiche del Governo di centrodestra vanno nella direzione del tutto contraria a quella del sostegno alla “povera gente”. Tagliare la spesa e affidare ai privati la gestione di aspetti cruciali del welfare (la sanità, la scuola, l’assistenza alla disoccupazione), giustificando le misure con i problemi di bilancio e la necessità del rientro del debito pubblico . Operando dunque quella inversione fra obiettivo (la lotta contro la disoccupazione e la miseria) e strumento che La Pira stigmatizzava. L’analisi fornita dal primo report statistico dell’Inps sui primi sei mesi del 2024 rivela una forte riduzione della platea dei nuclei percettori dell’Assegno di inclusione rispetto ai beneficiari del Reddito di Cittadinanza (RdC) nello stesso periodo del 2023 (coinvolte a maggio 2024 1,5 milioni di persone contro i 2,9 dell’anno precedente). Non è più rassicurante il numero di persone avviate ad una attività di formazione o di lavoro. Una politica proattiva che già La Pira nel 1950 considerava la chiave per ridurre la disoccupazione soprattutto giovanile. Interventi improntati al liberismo radicale (accompagnate da un’attenzione corporativa verso le categorie più fedeli del corpo elettorale) che vanno nella direzione contraria a quella del rispetto della persona e della dignità umana.
Keynes definitivamente in soffitta, dunque? Il compito di un Governo serio sarebbe quello di rivedere tutto il Bilancio, e quindi di riordinare il deficit secondo una “buona regola” finanziaria e in questa “revisione” dovrebbero prendere quota gli investimenti pubblici, cioè la spesa pubblica che da una parte ammoderna le infrastrutture del paese e dall’altra crea posti di lavoro. La finanza speculativa, invece di essere il mezzo per sconfiggere la povertà, è una delle cause della sua crescita. Esempio classico di un meccanismo socio-economico che la genera.
Un aspetto del problema è profondamente cambiato rispetto ai tempi di La Pira: la natura e la struttura del lavoro. Il basso tasso di disoccupazione del 7,7% del 2023 in realtà nasconde una situazione che priva i giovani di motivazioni e speranze. Non a caso si parla di “lavoro povero” (working poor) cioè retribuito in modo che non è sufficiente a garantire alloggio, alimentazione e fruizione dei servizi necessari.
Secondo i dati che emergono dalle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti che si sono rivolti ai Caf delle Acli (una mole di oltre 294mila dichiaranti occupati analizzati che hanno presentato i 730 continuativamente dal 2019, i lavoratori “continui” (attivi almeno 7 mesi su 12) che si trovano sotto la soglia di povertà relativa sono passati dal 9,6% del 2020 all’8,8% del 2023, facendo segnare appena un -0,8%. Nell’Italia che ha visto un progressivo aumento dei posti di lavoro dal post Covid (+700mila dal 2019), insomma, l’impoverimento del lavoro è una criticità ancora lontana dall’essere superata. Lavorare, a volte, non dà abbastanza per garantirsi una vita dignitosa. Dall’ultima ricerca dell’Ires sulla Toscana risulta che la regione ha il triste primato dei cronicizzati nell’assistenza Caritas, che solo il 38,8% è a tempo piano per tutto l’anno e che il 58% del totale guadagna meno di 15mila euro lordi.
Oggi la povertà è la conseguenza soprattutto della precarietà, fenomeno che La Pira non poteva conoscere e che porta gravi problemi materiali e psicologici. Il lavoro non è più una delle cose che dà senso all’esistenza ma una situazione di perenne instabilità che toglie uno dei diritti umani più importanti, quello di programmare la propria vita secondo le proprie aspirazioni. Tanti stanno provando sulla propria pelle cosa significa un lavoro smaterializzato nella sua natura anche in quella di essere la fonte della propria esistenza materiale.
L’articolo è stato pubblicato sul numero 557-558 della rivista Testimonianze “L’attesa della povera gente nel villaggio planetario”.
In foto il disegno di Ottone Rosai