Dalla casa alla panchina alla strada, l’invisibilità in agguato per tutti

Firenze – Un cerchio di invisibili circonda Firenze. Volti e storie che si dipanano come nebbia di fantasmi attorno ai bastioni rassicuranti della città, che dà la certezza dell’esistenza a chi è dentro il suo sistema, iscritto ai suoi uffici, nelle maglie del suo welfare. Tanti, tantissimi, tutti i cittadini “comuni”, tutti coloro che hanno ancora un codice, un nome e un cognome rintracciabili negli archivi della città. Tutti coloro che rientrano nel presidio della riconoscibilità amministrativa. Finché non succede qualcosa che non incrina questa tranquilla, banale sicurezza.

Fuori, gli altri. Tutti quelli che si trovano al di là delle mura telematiche e amministrative, coloro che perdono il nome, il cognome, la riconoscibilità. In altre parole, la residenza: quel lasciapassare che consente a un cittadino di essere riconoscibile per il sistema, ovvero capace di accedere al servizio sanitario, al welfare, ai bandi per la casa, per i contributi, alla scuola, ecc. Tutto ciò che rende l’essere umano anche un cittadino.

Si parte da questa tappa, per procedere in un viaggio che Stamptoscana ha fatto, avvalendosi di movimenti, associazioni, sindacati, in questo mondo degli invisibili, cercando di capire chi sono, quanti sono e come funziona il meccanismo che continua a sfornarne altri e poi altri ancora. Il primo focus lo facciamo con Silvio Toccafondi, avvocato di strada, dell’associazione omonima, ormai da sette anni sul territorio fiorentino.

“La nostra associazione, gli Avvocati di Strada, ha come scopo la tutela legale gratuita alle persone senza fissa dimora e vittime della tratta – spiega Toccafondi – a Firenze, per ora, non abbiamo avuto occasione di occuparci delle vittime della tratta, mentre per quanto riguarda i senza fissa dimora, è pieno. Per capire chi sono, facciamo un esempio semplice: quando una persona comune, italiano, che ha sempre svolto un’esistenza “normale”, perde il lavoro o magari si separa e perde l’abitazione, o viene sfrattato perché ha perso il lavoro, spesso si trova sulla strada, passando da una comune esistenza di ordinaria medietà a una situazione totalmente nuova e scioccante. Ebbene, in questa circostanza spesso prima che poi, perde la residenza anagrafica. Cosa comporta? Nel momento in cui questa persona non è più iscritta in una lista anagrafica, automaticamente viene retrocessa nella condizione di invisibile. Non ha più accesso ai servizi sociali, organizzati per Comuni e quindi per residenti nel Comune, ai servizi sanitari sia quelli di base che specialistici, l’unico canale di accesso che rimane a livello sanitario è quello del pronto soccorso (che comunque non può e non deve fare tutto), non ha la possibilità di iscriversi ai centri per l’impiego, in pratica tutto il welfare sparisce”.

Una categoria, quella dell’invisibilità, che, come spiega l’avvocato Toccafondi, ha una sua forte problematicità anche per quanto riguarda la sua natura legale. Infatti, come sostenuto proprio in queste pagine dai Cobas comunali che da svariati anni portano avanti questa battaglia (https://www.stamptoscana.it/residenze-1188-cancellati-nel-2017-nei-primi-sei-mesi-del-2018-sono-756/), in ultimissima istanza, come previsto dalla legge  del 1950 mai modificata o abrogata, la residenza anagrafica viene data nel Comune di nascita. Vale a dire che, se proprio scavando scavando non c’è altro modo di attribuire questa patente di “visibilità”, la persona non scompare dai radar amministrativi, ma ne viene riconosciuta l’esistenza almeno nel Comune dove la prova che esiste è più evidente, vale a dire appunto dove si trova il certificato di nascita. Una questione che riguarda fra le altre cose anche l’ ordine pubblico, in quanto lo Stato non può abdicare alla sua funzione di sapere chi si trova sul suo territorio. Ma qui si torna alla domanda iniziale: perché è possibile che un Comune possa condannare all’invisibilità un essere umano o un intero nucleo famigliare?

“La realtà, al di là di ogni formalismo, è che siccome il welfare costa – dice Toccafondi – le persone che rientrano in questa tipologia rappresentano costi. Diventando costi, nell’attuale quadro di finanza pubblica locale sempre più compressa, con margini  di spesa sempre più erosi, un trend ormai consolidato che va al di là degli indirizzi politici, le persone che non accedono alla residenza non accedono ai servizi sociali e quindi non costano. Attenzione però: in realtà l’invisibile è un costo che non emerge. Ci sono infatti i costi “occulti”, ad esempio quello conseguente al non accesso al servizio sanitario ordinario: ciò conduce la persona “reietta” a rivolgersi al pronto soccorso per qualsiasi motivo e ciò comporta un costo. Senza parlare della medicina preventiva, che conduce a non giungere alla necessità dell’intervento di urgenza. In definitiva, il discorso dei costi è più complesso di come viene impostato. Questa è la realtà: la persona senza residenza non ha accesso a niente (compreso sussidi e reddito di cittadinanza) e quindi non costa niente. A prima vista. In realtà queste persone non è che spariscono, se non gli dai la residenza. Le persone ci sono lo stesso. Questa è la realtà”.

Sul punto, è necessario precisare.  “Limitare le residenze per contenere la spesa sociale a carico dei Comuni, pur essendo un comportamento censurabile perché la funzione anagrafica non può essere alterata dalla preoccupazione di tutelare altri interessi, poteva avere un senso negli anni novanta quando le misure di welfare erano erogate principalmente dai comuni con  trasferimenti mirati o risorse proprie. Dagli anni ’90 in poi, con tutti i tagli subiti le risorse che i Comuni hanno per sostenere la spesa sociale si sono notevolmente ridotte. A maggior ragione dunque sarebbe importante dare a questi cittadini la possibilità di accedere a misure, come precedentemente il Rei ed ora il reddito di cittadinanza, che provengono dalle casse statali”, dice Giuseppe Cazzato, sindacalista dei Cobas comunali, che da anni segue la questione. Anche perché il punto è un altro. “Se si toglie a queste persone la possibilità di accesso agli strumenti del welfare nazionale – continua Cazzato – la ricaduta avviene sulle risorse comunali, dal momento che questi cittadini non cessano di esistere, ma permangono sul territorio aggravando il loro stato di bisogno, cui qualcuno deve provvedere. Così, l’impossibilità di accedere agli strumenti nazionali è un boomerang per le finanze locali” (https://www.stamptoscana.it/decreto-rilancio-reddito-demergenza-anche-alle-famiglie-senza-residenza/)

Tornando alla questione giuridica, del perché viene negata la residenza anche a persone che sono nate a Firenze, questione importante perché individua una sorta di meccanismo sempre in funzione per sfornare nuovi invisibili, l’avvocato spiega: “La persona senza fissa dimora di cui l’anagrafe non riesce a individuare una dimora quale che sia, dalla panchina alla stazione, al parco, al ponte e via discorrendo, per la legge anagrafica degli anni ’50, come spiegato, come criterio residuale di ultima istanza, dispone che si faccia riferimento al Comune di nascita. Il Comune, rimanendo sulle persone nate sul suolo italiano che dunque possiedono il comune di nascita, è obbligato, oltretutto con una procedura urgente, a procedere all’iscrizione entro 48 ore nella lista anagrafica e poi procede ai controlli, che sono successivi. Il  contrario di ciò che si fa normalmente, ovvero: richiesta, controlli, poi la decisione se si iscrive o no. Il meccanismo previsto dalla legge tuttora vigente è però bloccato, nel Comune di Firenze, da una determina dirigenziale diventata regolamento”. La domanda sorge davvero spontanea: da quando un regolamento prevale su una norma di legge? Sul punto, del resto, ormai circolari e sentenze si sprecano. Per tutte, è degna di essere ricordata almeno la nota diffusa il 19 febbraio scorso dal Ministero del Lavoro, la nota n.1319, che chiarisce la natura di diritto soggettivo incomprimibile della residenza e viceversa il carattere meramente formale e dichiarativo dell’attività della PA (vedi: https://www.stamptoscana.it/residenze-la-nota-del-ministero-del-lavoro-riapre-la-partita/).

“Si torna a quanto detto prima – commenta l’avvocato – si vuole imporre un controllo illegittimo sull’iscrizione anagrafica regolata dalla legge, dando come criterio direttivo l’accesso ai servizi sociali. In altre parole, sono i servizi sociali che in pratica hanno preso in mano, ma si può dire usurpato perché non gli competerebbe, la funzione anagrafica. Quindi l’iter amministrativo per essere preso in carico dai servizi sociali determina se la persona senza fissa dimora verrà o meno iscritta nelle liste anagrafiche. Il che è un controsenso, dal momento che prima si dovrebbe dare o non dare la residenza anagrafica alla persona, dopodiché, se ha la residenza può accedere ai servizi sociali. Non il contrario”.

Il meccanismo descritto diventa un problema sociale, una fabbrica di invisibilità che non risparmia nessuno. Al di là dei senza fissa dimora, il meccanismo stritola gente “ordinaria” che per problemi di lavoro, accentuati dalla pandemia in corso, o di separazioni coniugali, piombano sulla strada e non sanno dove andare. Dalla Caritas all’Albergo Popolare alla panchina il passo è breve. E il girone infernale dell’invisibilità sempre spalancato.

Esempi di vite ai margini, a bizzeffe. Ad esempio, Mauro, nato a Palermo, muratore, sposato e separato. La coppia abitava nelle case popolari. Il rapporto entra in crisi e si giunge alla separazione. La casa rimane a moglie e figli. Mauro perde la casa e come spesso succede, il lavoro. “dopo una settimana che dormi su una panchina – spiega – è difficile lavorare sulle impalcature”. L’unico tetto disponibile, una casa occupata. Almeno un tetto sulla testa, si potrebbe pensare. Ma ecco che scatta un altro inghippo, l’art.5 della cosiddetta legge Lupi. Secondo questo articolo, è escluso dalla residenza chi risiede in una casa occupata. Sì, ma in quella casa. Non in un altro, possibile, recapito. Tuttavia, per Mauro e per molti altri come lui, lo status di abitante in casa occupata preclude l’accesso alla residenza. In pochi anni dunque, da tranquillo lavoratore con casa, famiglia e lavoro, a invisibile.

Un altro caso? Eccolo. Si tratta di una causa in ballo attualmente, e riguarda, spiega l’avvocato, un nucleo famigliare che viveva in una casa occupata in via Baracca. Per quanto già detto, non potevano prendere la residenza. La bambina non aveva il pediatra, la madre ha una malattia neurologica che richiede attenzione e cure, ma anch’essa non ha accesso al sistema sanitario, il padre, disoccupato. “Facciamo una richiesta di art.700 (provvedimento di urgenza) il giudice di Firenze lo accoglie, dando la precedenza al diritto alla salute, il provvedimento giudiziale viene fatto eseguire dall’anagrafe del Comune, che li ha iscritti nella via fittizia (via del Leone), non nella casa occupata, cui osta il famoso articolo 5. Ma il Comune impugna il provvedimento. Il Tribunale in sede di merito, accoglie la tesi del Comune, accolta dal Tribunale che ha dato torto a se stesso in sede cautelare, e la nostra Associazione ha fatto appello. La causa d’appello è fissata l’anno prossimo”. Un caso in cui mamma e figlia sono nate a Firenze.

“Bisogna anche dire – dice Toccafondi – che, nei 7 anni che lavoriamo sul territorio, abbiamo registrato che le modalità con cui si risponde a una richiesta di residenza variano completamente da Comune a Comune. Eppure la legge è la stessa”.

Sette anni di lavoro alle prese con chi non ha voce. Sette anni in cui l’utenza è cambiata. “Da qualche anno, forse tre anni, è aumentata via via l’utenza italiana sia in termini assoluti numerici che statistici. Gli italiani sono ormai sopra al 50%. Non era così inizialmente, avevamo più utenza straniera, in particolare extracomunitaria, intendendo anche le utenze non solo italiane ma anche europee. Abbiamo seguito un po’ i picchi delle ondate migratorie degli sbarchi. Ormai mi aspetto comunque di trovare gente integrata, anche se di origine straniera, che si è trovata “retrocessa” per le ragioni cui accennavo prima, piuttosto che gente arrivata da poco. Si tratta di una sorta di emarginazione di ritorno. Va detto che la persona che arriva a una certa età, dai 50 in su per intenderci, persone che prima non arrivavano allo sportello, che si trovano dalla sera alla mattina a fare una vita completamente diversa, non hanno gli anticorpi che hanno quelli che ci sono nati in certe situazioni. Chi perde il lavoro ed è ormai anziano, non lo ritrova a causa dell’età e non ha i requisiti per la pensione, sono coloro che da una vita dingitosa si trovano veramente indifesi. Forse sono i più deboli: lo straniero ha la barriera linguistica, è mediamente più giovane, mentre spesso ci capitano persone che per anni vanno alla deriva, poi cercano di mettere in ordine i cocci, e magari, quando si chiede cosa hai fatto gli ultimi 5 anni, non ci rispondono perché non hanno la forza, gli strumenti, la fibra, la stamina per reagire”.  A 50, 60 anni, non è facile pensare “domani è un altro giorno”. Per quanto riguarda i numeri, ogni sportello fa delle schede di riepilogo dell’utenza: ci si aggira su una media di 150 schede annue, il 60% italiani. “A parte il Sud, che ha il problema degli sbarchi, noi di cause di migranti ne abbiamo pochissime. Abbiamo a che fare con italiani o stranieri sul territorio da anni. I nostri utenti sono sul territorio da tanto tempo, ma hanno grandi problemi a rientrare nel circuito giuridico”.

In realtà, come ricorda il sindacalista dei Cobas comunali Giuseppe Cazzato, qualche passo sembrava essere stato compiuto a livello istituzionale. Infatti, uno degli ultimi atti della consiliatura precedente (ricordiamo che si trattava del primo quinquennato con Nardella sindaco) era stato l’approvazione in consiglio comunale di una mozione che impegnava il sindaco a uniformare i procdimenti comunali alla normativa nazionale. Ma tutto è caduto nel nulla. “Sul punto, è intervenuta la risposta a un’interrogazione presentata dai consiglieri Palagi-Bundu di Spc che chiedeva conto della esecuzione concreta dell’atto, da parte dell’assessore competente Cristina Giachi. Nella rispposta si afferma che la mozione approvata dalla preceddente consiliatura non è vincolante per l’attuale giunta. Dimenticandosi, la vicesindaca uscente (Giachi è infatti stata eletta in consiglio regionale, ndr)  che di norma esiste la continuità amministrativa, per cui non è che tutti gli atti preesistenti decadono, ma ancora di più che da almeno 15 anni vi è anche una continuità politica e adirittura di presenze in maggioranza, tanto che si potrebbe parlare di continuità “personale”.”. Vale a dire, l’atto è stato legittimato dal voto della stessa maggioranza ad ora vigente e quasi dalle stesse persone.  Cos’è cambiato?

Il quadro  viene confermato dai numeri che emergono dagli ultimi rapporti della Caritas, riguardo ai vari Centri d’Ascolto che tiene a livello nazionale. Per quanto riguarda la Toscana, i dati emergenti dai Centri d’ascolto della Caritas inquadrano il problema. Il profilo del nuovo povero e dei suoi bisogni appare legato in buona sostanza alla vulnerabilità legata alla precarizzazione del lavoro. Il covid non ha fatto altro che metterci il carico da novanta. Inoltre, la fragilità maggiore si riscontra in alcune fasce della popolazione che pure possono contare su un’occupazione e su un reddito. L’analisi dell’IRPET, con dati di aprile 2020, dimostra che la riduzione del reddito, infatti, è stata e continuerà ad essere più forte per i lavoratori a basso reddito e per le famiglie meno abbienti. Un altro punto importante e “nuovo” riguarda l’aspetto generazionale. Le famiglie più giovani che risultano colpite con un’intensità doppia rispetto alle famiglie anziane (con le conseguenti ripercussioni e deprivazioni sui minori a carico). L’allarme è sostanzialmente sociale: il numero delle persone che diventeranno vulnerabili al rischio disoccupazione tenderà ad aumentare a tal punto da risultare un campanello d’allarme sulla tenuta complessiva della coesione sociale.

I punti di svolta che rendono concreto il pericolo di affondare nell’invisibilità sono in sintesi due: reddito insufficiente e condizione abitativa. Sono due problematiche che vedono l’aumento delle persone che si collocano nella fascia d’età fra i 35 e i 55 anni. Anche se le persone straniere rimangono nel complesso la maggioranza, dalla Caritas giunge la conferma per quanto riguarda gli italiani: negli ultimi anni, la crescita degli italiani che si è rivolto ai Centri è pari al 26,4% (dati di marzo-maggio 2020) del totale. Il problema abitativo cresce vistosamente, con l’aumento di coloro che si trovano in affitto (che passano dal 24, 8 dello stesso periodo del 2019 al 33,4% per coloro che abitano in una casa in affitto, mentre chi vive in una stanza in affitto passa da 2,9 a 4,5%). Si tratta degli “utenti dei Centri d’Ascolto., fra cui aumentano anche chi vive in alloggi popolari, che passano da 5,5 al 7,8%, ma anche proprietari della propria abitazione, da 1,6 a 2,6%. La frattura, come sottolineano le interviste su cui si basa il terzo Rapporto della Caritas,  avviene spesso a causa del disequilibrio “tra un canone di locazione elevato – che rappresenta un’uscita costante – e redditi da lavoro modesti, e spesso incerti”. Il 61,7% di coloro che si rivolgono ai Centri, oltre il 16,7% in più rispetto all’anno scorso, denuncia l’insufficienza del reddito. Così, come confermano anche dal Sunia, capita spesso che le persone chiedano pacchi alimentari per mangiare in modo da riuscire a pagare l’affitto. Perchè, e anche questo dà la misura dello sfilacciamento della tenuta sociale, gli aiuti richiesti sono sempre di più alimentari.

“L’emergenza c’è sempre stata – dice Marzia Mecocci, del Movimento di Lotta per la Casa – ma sicuramente ci sono sempre più persone in strada, anche perché la scelta di vendere beni pubblici invece di trasformarli per venire incontro a quella che è una vera e propria fame di alloggi, influisce sulla questione nel senso, molto banale, che meno alloggi popolari ci sono, più cresce l’emergenza. Un mutamento è avvenuto nel senso che in questi anni è venuta meno quella “vergogna”, quel pudore che impediva alle persone di venirci a cercare, di rendere nota la loro condizione. D’altro canto, per le famiglie italiane fino a un certo punto ha funzionato la rete parentale, che ora sta cominciando a sfilacciarsi. Stiamo aspettando lo tsunami della ripresa degli sfratti, in cui si sommeranno quelli vecchi che sono stati fermi per la ripresa del Covid e quelli nuovi che sonno maturati nel frattempo. Sono già venute svariate famiglie con cause da dibattere, sfratti, causa già dibattute ma rinviate e tutto arriverà ai denti del pettine. Anche perché sta giungendo anche la fine del blocco dei licenziamenti, per cui altri nuovi “poveri” verranno ad aggiungersi a chi era in difficoltà. Gli sfratti che vediamo sono in buona parte per morosità: ricordo un caso di una persona che ha ricevuto lo sfratto, maturato nei mesi in cui percepiva 79 euro di cassa integrazione. I bandi per i contributi affitto, straordinario e ordinario, non sono riusciti ovviamente a coprire che una piccola parte delle richieste, candidando così alla morosità gli esclusi”.

Quanto alle persone che si rivolgono al Movimento, dice Mecocci, c’è di tutto, dal single alla famiglia, che magari non rimane priva di lavoro, ma si ritrova con buste paga minime, assolutamente insuffficienti persino per mangiare. “Non capisco, di fronte a questa emergenza e urgenza, le modalità con cui si muove il Comune – dice Mecocci – ad esempio, l’accoglienza viene data per due, tre mesi e poi finisce. Avanti un altro. Fra i casi, quello di una coppia in cui la donna era stata accolta in struttura, finito il periodo, si trova col compagno a dormire sulle panchine. Una famiglia italiana, con due bambini, finita l’accoglienza di un anno in struttura si è ritrovata nuovamente in strada. In questi casi, la situazione è disperata: la soluzione proposta è quella di levare i bambini fino al momento in cui la coppia troverà casa e lavoro”. Abbandonati a se stessi, senza casa e senza nulla, difficile che questa coppia possa tornare a riaccedere da sola a quella tranquillità richiesta dalla struttura. Sempre sul tema dell’invisibilità, spesso capita che famiglie e single piuttosto che stare all’aperto, trovino soluzione temporanea in un’occupazione. “E qui scatta il tranello. Infatti, avendo spesso perso la residenza nel momento in cui si trovano senza casa e lavoro, quando vanno a richiederla non possono ottenerla o riottenerla perché abitano in una casa occupata. D’altro canto, non possono neppure entrare nella categoria dei senza fissa dimora (cercando a quel punto di ottenere la residenza fittizia  in via del Leone) in quanto si trovano in un luogo preciso, seppure occupato”. E non si tratta di situazioni rare o che riguardano stranieri: di 4 casi che in questo momento sono sul filo dell’urgenza, tre riguardano dei fiorentini e uno un signore siciliano, cui si è fatto già riferimento.

“Il problema – conclude Mecocci – parte dalla casa. Senza di quella, non è possibile mantenere un lavoro, un minimo di dignità. Quello che succede anche con le accoglienze, dove si procede a un processo di infantilizzazione in cui viene tolta ogni autonomia decisionale, che si riverbera anche nella modalità di smembrare le famiglie, madre e bimbi in un luogo, padri in strada o per qualche tempo all’Albego Popolare. Smembrare la famiglia significa tante cose. Per questo si ritrovano tante famiglie nelle occupazioni, con tutti i rischi che questo comporta. Piuttosto invisibili, ma insieme. E qual è la colpa? Forse essere poveri?”.

Foto dall’archivio del fotografo Luca Grillandini

 

 

 

 

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