Con una improvvisa letterenzola che la Gazzetta ha fatto “girare dalla prima” tale era la portata dell’intervento, un gruppetto di reggiani più o meno noti, più o meno esperti del settore, e più o meno contigui a quelle istituzioni che a parole vorrebbero renzianamente rottamare, ha di recente raccomandato al futuro sindaco di Reggio l’abolizione dell’assessorato alla cultura. In nome e per il bene presunto della stessa. Con queste riassumibili motivazioni: la politica non dovrebbe afferire alle attività di spirito e pensiero, gli uffici dell’abolendo assessorato sono pieni di questuanti in cerca di visibilità pur in assenza di talento certo, la confusione dei ruoli pubblico-privato nella gestione della dimensione in oggetto. Controproponendo una sostanziale autogestione delle istituzioni culturali nella prom0zione delle proprie attività e nella rendicontazione economica. Con la politica genericamente intesa occupata “solamente” nel far sì che i cittadini possano esercitare il diritto a godere il più possibile gratuitamente degli strumenti eruditivi. E sperando magari nella nascita di qualche Fondazione in grado di far convergere importanti capitali su altrettanto importanti progetti per la comunità.
Bene: gran parte della visione agognata da chi sogna l’abolizione dell’assessorato alla cultura è ahinoi già presente nella nostra poco acculturata realtà. Ovvero la politica attraverso l’amministrazione è dentro le istituzioni culturali, un po’ per bramosia di occupazione, un po’ per assenza di mecenati privati capaci di garantire proposte di qualità e bilanci di contenimento. In realtà, nella sua accezione più alta, ovvero se la politica fosse davvero ricerca del tanto abusato (nelle parole, per nulla nei fatti) “bene comune”, il problema dell’assessorato manco si dovrebbe porre. Proviamo a ribaltare l’angolatura della visione e riflettere su cosa sarebbe stato fatto a Reggio (già scarsamente appetibile) senza gli assessorati alla cultura che si sono alternati nel corso dei decenni. Cosa resterebbe nel campo del sapere e dell’istruzione per tutti? Il problema è che gli assessori, di qualsiasi settore, hanno fino ad oggi privilegiato amici e tesserati partito. E che la dicitura alla fine della sfilza delle loro deleghe si è spesso tramutato in un mero strumento per la creazione di consenso. Più che la creazione di comune senso del vivere e dei servizi. E nella bulgara Reggio se non emetti voce indistinta nel per niemte polifonico coro del blandimento del potere, puoi anche essere Giovanni Pico della Mirandola o Gioacchino da Fiore, che non c’è un circolo disposto a sponsorizzarti un motto da scrivere sul muro di un cesso di stazione ferroviaria.
Tutti gli assessori, anche quello al Welfare, hanno quotidianamente a che fare con paraculi di ogni risma; al futuro titolare di queste competenze il compito di evitare di cedere alle lisciate invertendo un trend assai di moda. E anche il compito di evitare che i soliti noti facciano incetta bulimica di incarichi e provvigioni con assegnazione diretta e senza gara. E di premiare individui e proposte aldilà delle loro appartenenze, in nome di quella meritocrazia fino d oggi solo sbandierata. Il rinascimento civile avverrà solo così, non certo con abolizioni di assessorati e creazioni di fondazioni alternative. Che a Reggio, fatta lodevolissima eccezione per la collezione Maramotti, non ci sono e non ci saranno. Chi li dovrebbe tirar fuori questi soldi? Alla fine si va a battere cassa dalla fondazione Manodori, da Iren o dalle cooperative, che tuttavia nei prossimi anni, essendo assorte in tutt’altri pensieri, stringeranno sempre più i cordoni della borsa. Che il progresso nel sapere condiviso e pubblico è nato quando nella storia veri servitori della Cosa pubblica hanno preso in mano i patrimoni intellettuali e artistici di sovrani e privati illuminati. Che ne sarebbe altrimenti del British Museum e del concetto stesso del diritto civile e per tutti alla formazione, al divertimento e all’elevazione?