Un buon articolo inizia sempre da una buona foto: questa la regola impartita dal Stefano Navarrini, direttore della rivista in cui ho imparato il mestiere. Si parla di tempi lontani, quando facevamo giornalismo stampato su carta patinata… roba di prestigio. E se la carta è in buona parte sorpassata, resta valida la regola – anzi, nel mondo digitale vale forse ancora di più, ma di questo tratteremo separatamente – della necessità di saper fare un discorso, più o meno, intelligente partendo dalla suggestione che una foto scatena. Come in questo caso: un calice di vino, una forchettata di pasta… immagine così suadente da far percepire, esaltandolo, l’odore del cibo che racconta.
Intanto il profumo del sole sprigionato dal vino, figlio di quella Vitis vinifera che per dare buoni frutti ha necessità di essere “coccolata” per molto tempo… occorre un susseguirsi di stagioni, di anni affinché i suoi grappoli siano pronti per essere vendemmiati e trasformarsi in vino, con tutto il pregio che gli spetta. La stessa immagine racconta poi il penetrante sapore del grano, sbocciato dalla terra dopo che lei ne ha nutrito ogni chicco, riparandolo dai rigori invernali nel tepore del proprio ventre.
È una foto invogliante, preludio di momenti che sanno di buono evocando emozioni che ci riportano alla nostra essenza primordiale, quando l’uomo mise le radici della prima vigna decidendo così di dare un nuovo ruolo alla sua presenza sulla Terra: non più animale nomade, perché piantando le vigne, coltivando gli olivi, seminando il grano manifestava la volontà di insediarsi stabilmente in un luogo, per farlo diventare la propria casa.
Bene, detto questo l’articolo è finito e andiamo in pace? Certo che no, manca una riflessione importante su quella foto, l’attenzione a un “intruso” – seppure ormai non più tale ma, anzi, divenuto parte del nostro patrimonio alimentare –, molto più “giovane” rispetto a quelli visti finora: il pomodoro.
Questo frutto, tanto prezioso per la nostra salute guanto gustoso e versatile in cucina, è arrivato in Europa dopo che Cristoforo Colombo ebbe attraversato l’Atlantico: fu uno dei tanti prodotti ignoti al vecchio continente, come lo erano patate, mais, cacao e molti altri ancora. Non che l’Europa fosse nuova a questo genere di contaminazioni, visto che nel corso dei secoli già molte specie – come ciliegie, meloni o pesche giusto per dare qualche esempio – erano arrivate in Mediterraneo dall’Oriente e, trovandosi a loro agio nel nostro clima, sono diventate piante appartenenti alla nostra cultura: e se le contaminazioni dal Catai, o giù di lì, svaniscono inghiottite nell’oblio del tempo, quelle arrivate coi navigatori approdati nel continente Americano a fine 1492 – quasi 1500! – sono più facilmente rintracciabili.
La vecchia Europa purtroppo contaminò le popolazioni indigene con batteri biologici e culturali, ma di qua dall’Atlantico si aprirono prospettive stimolanti sotto molteplici aspetti: economiche, in primis, e di conseguenza sociali. Pensiamo alle patate – arrivate in Europa nel 1569 a bordo di una nave proveniente dal Perù – che coltivabili con relativa facilità e per questo poco costose, versatili nell’abbinamento con altri cibi, si videro in breve tempo adottate come pane dei poveri, con tanto di approvazione dei medici che le consideravano un buon nutrimento.
Al contrario, alcune piante, non meno gradite, avrebbero invece offerto maggiore soddisfazione alla voluttà del palato, ammaliando le peccaminose corti europee: Linneo catalogò con il nome di Thobroma – vale a dire alimento degli dei – la bacca di xocoati, ben nota alle popolazioni Maya e Atzechi che da centinaia di anni ne utilizzavano la polvere per preparare una bevanda prelibata, energetica, rappacificante con il Creato… il cacao arrivò da noi nei primi decenni del 1500, al seguito di una spedizione condotta da Ferdinando Cortés.
Potremmo continuare a lungo a raccontare le vicende del cibo arrivato da lontano, tutte cariche di fascinoso esotismo: qui, invece, ci limitiamo a valutare le novità che il consumo di un alimento ha portato nei costumi della società europea di allora. Andando oltre il semplice ambito nutrizionale per il corpo, ogni cibo porta con sé significati sociali che lo rendono strumento di appartenenza sociale, una sorta di “termometro” socio-culturale capace di provocare profonde mutazioni a matrice antropologica, una tavolozza di sensazioni con sfumature che via via declinano in varie prospettive l’appetibilità di una rappresentazione che colloca la persona secondo classificazioni di status.
E, come è noto, quanto più una società è complessa, tanto maggiori diventano le possibilità di fratture anche nel ruolo attribuito al cibo.