Crisi, consumismo e bisogni profondi: l’anima nascosta degli anni Duemila

Intervista al direttore di Testimonianze Severino Saccardi

In che tempo viviamo? E quali sono le caratteristiche di questo tempo? Sono questi gli interrogativi di fondo che si pone la rivista Testimonianze, fondata da Ernesto Balducci nel 1958, nell’ultimo numero intitolato “Anche gli anni Duemila hanno un’anima?“, Grazie agli interventi e agli apporti dei diversi autori, il volume cerca di offrire un contributo alla riflessione, partendo da una consapevolezza: “E’ un tempo nel quale viviamo nelle logiche del consumismo e assuefatte ad una sorta di materialismo piuttosto gretto, ma poi si viene a scoprire che la questione è, in realtà, più complicata”, dice Severino Saccardi direttore della rivista. In questa intervista spiega il perché.

Una questione più complicata, certamente. Ma in che senso?

Intanto, bisogna fare attenzione (e più di un autore sottolinea questo aspetto), a non accodarsi o ad occhieggiare a nostalgie regressive o a un certo spirito antimoderno, che ha avuto non poco corso in questi ultimi tempi. Su questo, nessun equivoco è possibile: non è vero che «si stava meglio quando si stava peggio». È che certi aspetti delle società contemporanee farebbero venire voglia di andarsi a rileggere alcuni grandi testi di critica della dimensione dell’«alienazione» (anche di grandi autori, come Marcuse, come i raffinati intellettuali della Scuola di Francoforte). E sarebbe una rilettura, senza dubbio, utile. Senza però dimenticare che quelle analisi e quelle posizioni, che pure hanno contribuito a fare la storia del pensiero critico, erano, in non pochi casi, tutt’altro che esenti da tentazioni di carattere ideologico. Il suggerimento che questo nostro lavoro si propone di dare è quello di cercare di inquadrare con occhi lucidi la crisi del nostro tempo. Ma guardando avanti. D’ altra parte, come scrive Daniele Pasquini, non c’ è alternativa al futuro.

Nel volume di «Testimonianze» c’è, anche la proposta di un Sillabario per capire lo «spirito» degli anni duemila(venti).  Ne vogliamo parlare?

Volentieri. È quello che si propone di fare il contributo di Fabio Dei, con il tocco esperto dell’antropologo, mettendo fuoco una serie di temi che hanno occupato e occupano l’orizzonte culturale del nostro tempo, attraverso l’esame di alcune parole chiave (da Antropocene a Verità). È un esame che viene condotto a partire dall’ottica (onestamente e preventivamente dichiarata) di un boomer che ha avuto la sua «educazione sentimentale» e intellettuale nel Novecento (come a dire, in «un altro mondo»). Il sillabario si snoda lungo categorie filosofiche e culturali ormai al tramonto e altre che, nel nostro inquieto «tempo della complessità», si vanno affermando. Una sorta di viaggio intellettuale (in cui si viene posti a confronto con questioni come quelli dell’Intelligenza artificiale, del Lavoro che cambia, delle Migrazioni, del ruolo della Rete…), che viene portato avanti all’insegna della libertà di pensiero e dell’anticonformismo, senza paura di urtare (si veda la voce Binarismo) alcuni degli assunti del «politicamente corretto».

Nel volume si legge, a proposito di paure, che, nel nostro tempo sembra essere scomparsa la più grande di tutte: la paura della morte. È proprio così?

Naturalmente no. Si tratta di un tema esistenziale di fondo che non scomparirà mai e che è destinato, come purtroppo sappiamo, a far compagnia agli esseri umani. Ma oggi questo tema è rimosso. Non se ne vuol sentir parlare. Soprattutto, come scrive il teologo Brunetto Salvarani (nell’articolo intitolato C’era una volta l’aldilà) a molti sembra inattuale la rappresentazione religiosa (e, segnatamente, quella cristiana) dell’oltre morte. La Chiesa stessa, sotto i colpi della secolarizzazione, pare poco propensa a parlare dei «temi ultimi». Una questione, e una contraddizione non da poco, se si pensa che la dimensione della fede nella «Resurrezione della carne» e quella della trascendenza sono centrali e fondamentali nel messaggio cristiano.

Eppure, proprio nel nostro tempo, si avverte in modo particolare il carattere precario dell’esistenza umana.

Certo. È così. Nel volume, di questo, si parla ampiamente. Come dicevamo all’inizio, il nostro tempo e le nostre società sembra paghi, talora, dell’andamento di un mondo fondato sul consumo e sul «benessere». Ma il benessere, intanto, è relativo e segnato dalle sperequazioni sociali. E poi, in questi anni, il nostro sistema di vita è stato pesantemente insidiato su più versanti da più parti. Dalla crisi economica che ha reso più incerta e faticosa, a volte, la condizione di molti e ha rimesso in discussione il nostro stile di vita. E poi ci sono stati i problemi più grandi, che la precarietà esistenziale ce l’hanno fatta avvertire in modo ravvicinato. Parlo della pandemia e del ritorno della guerra in Europa. Molte persone sono tornate ad interrogarsi intimamente su una ricerca di senso in merito agli interrogativi di fondo dell’uomo. «Che ne sarà di noi» e «Che cosa ne sarà di me?»: sono le domande che, forse, per una sorta di pudore, non vengono pronunciate ad alta voce. Ma albergano, diciamo così, nel cuore di tanti. Forse, come dice Marco Salucci, è proprio in mezzo allo scetticismo dei nostri tempi, che ci si rende conto, che la risposta ai temi della vita non può essere fornita solo dalla conoscenza scientifica (la quale, come il tempo della pandemia ha, in tutta evidenza, dimostrato, deve essere, certamente valorizzata, difesa e promossa), nel coraggio di una esplorazione volta a riscoprire la dimensione della meditazione e del silenzio e la «via dei mistici», al di là della crisi delle teologie consuete e tradizionali.

Dunque, nel nostro tempo, il «bisogno di anima» esiste, eccome…

È misconosciuto e negato, spesso, ma c’è, evidentemente. E poi va saputo riconoscere. D’altra parte, come puntualizza Andrea Bigalli (il cui intervento usa il riferimento alla vicenda di Elia, il primo profeta, per ipotizzare il superamento del senso di disfacimento che pare caratterizzare il tempo presente), la spiritualità non è fuga e disconnessione dal mondo. È valorizzazione della relazione e dei legami. Lo dice, citando Borges, che così si esprime: «Non sai bene se la vita è viaggio, se è sogno, se è attesa (…) In certi momenti il senso non conta. Contano i legami».

D’accordo. Contano i legami, le relazioni che si costruiscono nella vita reale. Ma viviamo in una dimensione sempre più virtuale. Non è una contraddizione?

Noi viviamo nel tempo delle contraddizioni. Gli anni duemila sono stati (e sono, oggi ancor più) caratterizzati da cambiamenti (spesso frenetici), di tipo tecnologico e sociale che anche i giovani fanno fatica a metabolizzare. È quanto scrive Giulia Checcucci, che, nel suo lavoro di psicoterapeuta, ha modo di ascoltare ragazzi e ragazze e di dialogare con loro. In certi casi, la compenetrazione fra mondo «reale» e mondo virtuale è sconcertante. Ed è sconcertante il modo in cui le relazioni umane sono segnate dall’uso dei nuovi mezzi di comunicazione.  E quando la psicoterapeuta mostra meraviglia a giovani pazienti che, magari, interrompono una relazione sentimentale con un semplice messaggio whatsapp, questi non capiscono. Per loro sembra essere normale. Oggi si comunica e ci si relaziona con gli altri anche così.  Eppure, sottotraccia, non pochi ragazzi coltivano, anche se non sempre con piena consapevolezza, il bisogno di andare oltre il dominio della tecnologia (che pure ha una grande funzione, beninteso) per dare più spazio ad una relazione più immediata e diretta con gli altri e con la propria interiorità.

A proposito di rapporto con l’altro, mi pare che nel volume ci si occupi anche del tema della solidarietà. Come vivono e avvertono, i giovani, un valore come la solidarietà?

È un valore che, soprattutto in occasioni particolari viene riscoperto, e vissuto con intensità, proprio dai giovani. È quanto scrivono, ad esempio, Vincenzo Russo, Pierangelo Pedani e Davide Drei. La Romagna è stato un importante banco di prova. In questa terra (devastata dall’alluvione), tra i volontari che hanno prestato soccorso alle popolazioni colpite numerosissimi erano i giovani.  Sono corsi e ricorsi della storia. Anche tra gli «angeli del fango» del 1966 a Firenze, i giovani erano tantissimi. Si presta aiuto, con naturalezza e con il sorriso fra le labbra. In un tempo come il nostro, popolato anche di solitudini, ridare spazio alla dimensione della solidarietà è molto importante. E può essere, per così dire, una buona terapia. È un giovane autore come Gregorio Iacopini (che ama le cose belle e gira letteralmente con le foto dei grandi poeti in tasca), peraltro, a scrivere di una importante realtà di accoglienza, solidarietà umana e raccoglimento spirituale come quella del «Borgo Tutto è vita», immerso nei boschi dell’Appenino pratese, ricostruito dopo l’abbandono, strappato alle sterpaglie e fatto per ospitare chi si trova ad affrontare la malattia e la prospettiva della fine. Un luogo in cui si cerca di dare conforto e serenità. L’ animatore è un monaco, Guidalberto Bormolini, che ama la musica (prima di immergersi nell’esperienza monastica faceva il liutaio) e la bellezza della natura. Dei giovani Guidalberto Bormolini dice che «hanno bisogno di ritrovare la libertà di sognare, di desiderare qualcosa di alto e di sapere che ci si può credere».

Un messaggio forte per i nostri millenials…

Eppure, messaggi di questi tipo potrebbero, forse, trovare orecchie più attente di quanto non ci si potrebbe aspettare, proprio fra i giovanissimi, apparentemente così apatici e superficiali. È una considerazione che verrebbe da fare leggendo i lavori di studenti di alcune scuole di Firenze e dell’area fiorentina (delle classi III B e III C del Liceo «Leonardo da Vinci», della classe IV B dell’Istituto «Gobetti Volta» di Bagno a Ripoli e della classe V D del Liceo «Russell-Newton di Scandicci) pubblicati nel volume. Sono testi in cui i temi del confronto con la propria interiorità, con la conoscenza di sé stessi e del prossimo, con l’esigenza di un approfondimento della stessa «questione religiosa» sono ben presenti. C’è in merito una notevole varietà di posizioni (che riflettono il carattere sempre più variegato della nostra società). Ci sono i credenti, ci sono i non credenti e ci sono anche quelli che fanno capire di non essersi mai posti in maniera approfondita la questione. Va rilevato però un dato che pare accomunare le diverse posizioni: la convinzione, chiaramente affermata, che si debbano assolutamente rispettare le posizioni degli altri. Il che pare, sinceramente, incoraggiante e promettente. Viene anche nominata e riconosciuta l’importanza dell’amore. Sono segnali significativi, di cui va colto e valorizzato il senso.

Ma, allora, va tolto, definitivamente il punto interrogativo: anche gli anni duemila hanno un’anima.

Qui c’è, potremmo dire, una specie di cerchio che si chiude.  È vero! Noi siamo partiti da una domanda: anche gli anni duemila hanno un’anima? Ebbene, diciamola in maniera semplice:l’anima (come per ogni tempo, lo abbiamo già detto), evidentemente c’è. Certo che c’è. Ma, a volte, sembra nascosta. Soffocata sotto la coltre avvolgente delle (apparentemente quiete) abitudini consumistiche. Certo (Bauman ce lo ha insegnato), siamo in una società «liquida», di cui non è semplice cogliere la sfuggente identità di fondo. Tutto vero. Ma soprattutto, sono personalmente convinto che, al di là delle apparenze, ci sia un lato nascosto dell’anima. Vecchio come il mondo, ma oggi spesso rimosso. È un bisogno profondo, che nasce da una feconda mescolanza di esigenze: di autenticità, di riscoperta della spiritualità (il che non vuol dire, automaticamente, religioni), di conoscenza di sé e di apertura creativa all’altro. Un bisogno, non di rado, misconosciuto. E la rimozione non è mai una buona cosa. Alcune delle patologie del nostro tempo derivano, forse, anche da qui. Confrontarsi con questo bisogno «antico» potrebbe essere una delle vie da percorrere per dare un volto più umano alla nostra avanzata modernità ed alle sue conquiste, che sono comunque, sia ben chiaro, da difendere e da valorizzare.

Abbiamo parlato di un messaggio forte per i giovani. Ma verrebbe da dire: e gli altri?

Per tutti è possibile, in un mondo talora tendente ad abituarsi alla bruttezza, imparare nuovamente ad amare la bellezza (come dice Mario Bolognese). E poi (ha ragione Caterina Liverani), chiunque può riconoscere quel qualcosa che riesce a turbare e ad appassionare nel profondo. Una scintilla che si accende. Riconoscerne la luce non è solo appannaggio dei giovani. È una forma di sensibilità che non invecchia mai: basta saperla alimentare nel tempo.

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