La denuncia di un sempre maggiore aggravamento delle disuguaglianze sociali, causato dalle politiche neoliberiste e dalla globalizzazione, sta al centro del discorso critico e progressista di oggi. È una constatazione assunta come autoevidente, che fonda un atteggiamento morale di indignazione nei confronti dello status quo.
Non è certo difficile imbattersi costantemente in casi drammatici di disuguaglianza, in un mondo in cui convivono i miliardari immersi nel lusso sfrenato e i profughi che annegano nel Mediterraneo. Ma proprio il carattere scontato del discorso sulla disuguaglianza ci dovrebbe spingere a esaminarlo con qualche attenzione critica, specie se dall’indignazione morale vogliamo passare all’analisi politica. Disuguaglianza rispetto a cosa, e di chi nei confronti di chi? E in quanto all’aumento costante delle disuguaglianze, in relazione a quale altro periodo storico o modello di società? Di quali dati possiamo disporre per supportare la visione di un mondo che si fa sempre più disuguale e ingiusto?
Il più classico strumento è l’indice di Gini, che misura il grado di distribuzione del reddito all’interno di singoli paesi: è un numero che sta tra 0 (situazione limite in cui tutti hanno lo stesso reddito) e 1 (situazione limite in cui un solo individuo possiede l’intero reddito). Un indice di Gini basso significa egalitarismo, alto significa accentuata disuguaglianza.
L’Europa ha gli indici più bassi, in virtù soprattutto del suo sistema di welfare ancora abbastanza forte; anche se la disuguaglianza è in risalita rispetto ai primi decenni del secondo dopoguerra, i «trenta gloriosi», caratterizzati da grande sviluppo economico, politiche degli alti salari e incremento dei ceti medi. Il neoliberismo e le speculazioni finanziarie hanno ampliato la forbice fra i redditi più alti e i più bassi. Ma la disuguale distribuzione del reddito ci racconta solo una parte della storia, perché non tiene in considerazione le economie informali, e soprattutto il livello complessivo di ricchezza.
Inoltre, questi argomenti non ci aiutano a cogliere un aspetto fondamentale della storia degli ultimi cinquant’anni: e cioè l’uscita da una condizione di povertà assoluta di una grande maggioranza della popolazione mondiale, che nel frattempo è più che raddoppiata. Nel 1961 sulla Terra eravamo in 3 miliardi; siamo diventati 6 miliardi nel 1999, e oggi siamo 8. Siamo giustamente colpiti dalle condizioni di povertà assoluta in cui vivono all’incirca un miliardo di persone, con redditi giornalieri inferiori ai 4 dollari, colpiti da guerre, carestie, private di servizi e diritti essenziali; a fronte di un altro miliardo che vive in società opulente.
Ma non consideriamo il fatto essenziale, cioè che tutto il resto – gli altri 6 miliardi, più o meno – sono transitati dalla povertà assoluta a condizioni di cosiddetto medio reddito, difficilmente paragonabili a quelle in cui versavano fino a qualche decennio fa quelli che si chiamavano Terzo e Quarto mondo. L’aspettativa di vita, le disponibilità alimentari, i servizi sanitari e educativi, l’accesso al trasporto e alle comunicazioni di massa, il riconoscimento dei diritti umani, la parità di genere, sono oggi incomparabilmente più alte per grandi masse di tutto il mondo. Il che non significa che va tutto bene o che siamo nel migliore dei mondi possibili.
Ma se vogliamo parlare di disuguaglianze in una modalità che non è solo morale o religiosa, come spesso accade, non possiamo non tener conto di questo scenario di fondo.
Il testo di Fabio Dei è pubblicato sulla rivista Testimonianze “Anche gli anni Duemila hanno un’anima?” n.550-551