Covid seconda ondata, Catalani: “Più tamponi e ricerca, ma il sistema è debole”

Firenze – Covid-19, seconda ondata. Una realtà che ormai sembra assodata, che risponde agli allarmi lanciati dai vari esperti durante i mesi di “bassa marea” in cui si cominciava a sperare erroneamente che il coronavirus avesse perlomeno smussato le armi. La Toscana nella seconda ondata registra alcuni dati preoccupanti che riguarda sia il numero dei nuovi casi sia l’accelerazione del contagio. Per capire come e con quali strumenti dovremo combattere la lunga battaglia che si prospetterà nei mesi invernali, spesso incrociandosi con l’influenza di stagione, ci siamo rivolti al professor Corrado Catalani, infettivologo, già primario del reparto malattie infettive dell’ospedale di Pistoia.

Qual è il punto da cui partire per una gestione corretta dell’epidemia?

Lo snodo importante è che i ragionamenti e tutte le considerazioni, ma anche le programmazioni di interventi,  devono essere fatti sui dati reali. Il “successo” che ha avuto Grisanti in Veneto è legato al fatto che lui abbia semplicemente utilizzato quelli che sono gli elementi di base nelle strategie di gestione di tutte le malattie diffusive o contagiose che dir si voglia. Grisanti ha semplicemente preso la prima lezione gestione epidemie e l’ha proposta a una politica che evidentemente è stata in grado di recepire, provvedendo rapidamente a mettere in atto ciò che lui diceva. Ripeto, non è niente di straordinario: è semplicemente quello che va fatto nel controllo delle epidemie, vale a dire diagnosi più precoce possibile dei casi di infezione non di malattia, dal momento che nella gran parte delle malattie infettive soprattutto di tipo virale, è l’infetto che comincia a contagiare. Essendo l’infezione il punto nodale, è fondamentale disporre un numero molto alto di tamponi in aree individuate, fino a coprire interi gruppi di popolazione. E poi, isolare: trattandosi di una malattia virale di nuovo tipo e non di una forma batterica, non ci sono farmaci, come per la polmonite batterica per cui valgono gli antibiotici, per quanto gli antivirali abbiano avuto uno sviluppo enorme nella fase di esplosione dell’Aids.

Cosa è stato fatto, in linea con quanto si sarebbe dovuto fare?

Ciò che sorprende è che questa lezione, vale a dire in termini sportivi i “fondamentali”, non sono stati osservati in nessuna parte, escludendo il Veneto. Il profilo di oggi ci mostra una distribuzione molto difforme di casi, come si evince dai dati diffusi quotidianamente dal Ministero della Sanità. Ciò che sorprende subito è il rapporto fra i decessi e il numero di casi, che nelle singole regioni è completamente diverso. Questo è già un punto che avrebbe dovuto aprire un dibattito:  in Lombardia fino a ieri il numero di casi totali e decessi rimane superiore al 10%, mentre in Liguria il tasso di letalità è molto inferiore rispetto a questa soglia. Questo avrebbe dovuto generare quesiti che avrebbero dovuto, nella seconda fase, consentire di approntare un sistema meglio organizzato, sia diagnostico che assistenziale. Stranamente, la stessa discrepanza si ritrova a livello europeo, come testimoniano i dati provenienti dalla John Hopkins University, che funge da osservatorio cui fare riferimento. Il tasso di letalità è sostanzialmente una proporzione fatta da due elementi:  il numeratore, dove  ci si mette chi muore, e il denominatore, dove si iscrive  chi viene definito e individuato come caso. Di fronte a questi due scenari, emergono due domande alle quali nessuno ha risposto e che sono fondamentali per capire cosa si doveva fare e cosa non è stato fatto.

Il numero dei deceduti, dunque il numeratore, è ovviamente considerato il “numero” più sicuro per ovvie ragioni. Mediamente, questi decessi sono avvenuti in ospedale, e resta dunque l’incognita di ciò che è successo fuori dagli ospedali, dal punto di vista di definizione della diagnosi di morte. Ciò che cambia sensibilmente è quello che avviene al denominatore. Non si capisce infatti perché nella proporzione, noi abbiamo avuto un numero di morti enormemente più alto di tutti i principali paesi europei in rapporto al numero dei casi. Avremmo quindi un tasso di letalità estremamente più alto. Nel denominatore, vale a dire nel numero dei casi che vengono individuati, pesa sempre questo dato del numero dei tamponi che vengono realizzati. Su questo dato c’è da farsi una domanda molto precisa: se il numero dei casi che gli altri paesi hanno rilevato (ciò vale anche per le difformità che ci sono a livello regionale) è molto più alto perché il denominatore è molto più grande quindi la frazione che descrive la letalità è più piccola, significa che hanno fatto molti più tamponi di noi, ma molti, molti di più. Perché noi non siamo stati in grado, come sistema pubblico, di organizzarci per farne molti di più? Questa è la prima domanda. Prima domanda che non è peregrina, perché se all’inizio siamo stati il primo Paese (vero o falso che sia) a subire il colpo dell’epidemia soprattutto in alcune zone del Nord, non si capisce perché a livello informativo si ricominci a dire, riguardo ai tamponi, “ne abbiamo fatti di più di ieri”, quando evidentemente sono sempre molto meno di quelli che sono stati fatti in altri Paesi. Parliamo di Paesi che sono in un’area geografica continentale che è la nostra, che hanno profili demografici che più o meno ci assomigliano, però i dati sono completamente diversi.

Cosa dovrebbe cambiare nell’atteggiamento delle istituzioni sanitarie nazionali?

Ciò che è paradossale è che la comunicazione di massa, quella che passa attraverso la tv, continua a fare contabilità e gli organi che dovrebbero presiedere alla gestione della contingenza (ministero, Istituto superiore della sanità) per quanto se ne sa, non avviano analisi puntuali. Nella seconda ondata, ci troviamo a fare un numero di tamponi un po’ maggiore, ma non tanto quanto sarebbe necessario. Grisanti al solito dice una cosa molto semplice: dobbiamo aumentare il numero dei tamponi, e dobbiamo aumentarli di molto. Altrimenti, non ci si capisce veramente niente.

Dunque, il tasso di letalità in Italia potrebbe essere condizionato dal fatto che non abbiamo definito il volume del denominatore?

“Se il dato che ci ritroviamo fosse reale, avremmo una letalità talmente più alta che aprirebbe un altro tipo di quesito: come risponde il nostro sistema sanitario dal punto di vista del territorio e delle strutture ospedaliere a questo impatto? Si apre un altro capitolo. Di fatto, l’unica linea che ha tenuto nella pandemia è stata quella professionale degli operatori. Il resto ….. si è visto di tutto. E se è vero che la linea professionale ha tenuto, tuttavia era finalizzata a gestire un problema che era già definito come stato di malattia grave, soprattutto nella prima ondata. Una serie di azioni avrebbero potuto partire prima, nel territorio. Quindi si sta pagando il prezzo di una programmazione negli anni (si tratta di dati di fatto) che ha avuto due miopie importanti: una, a livello internazionale ma il fatto non ci consola, il dato che dal 1996,  a livello globale,  si sono succeduti vari episodi di spillover, ovvero patologie che diventavano epidemiche, legate ad agenti infettanti per lo più virali, che superavano la propria nicchia ecologica. Un sistema pubblico, parlando a livello continentale, che non si attrezza per capire che questi episodi continuano a svilupparsi, non è adeguato.  Anche perché in Toscana in particolare abbiamo una storia recente costellata di episodi nei quali la patologia infettiva ha creato una serie di criticità. Le multiresistenze  a livello ospedaliero, in Toscana, hano visto il fenomeno dell’Escherichia coli New Delhi, multiresistente, fenomeno unico, a livello internazionale senza precedenti. La criticità è legata al fatto che si sono generate delle resistenze sul ceppo comune di batterio. Si tratta solo dell’ultimo episodio di un fenomeno con cui ormai ci confrontiamo da anni. Il problema di un profilo infettivologico che insisteva sulla popolazione c’era in precedenza, e noi non eravamo preparati, al punto che anche il piano di emergenza nazionale era scaduto da tempo e nessuno si era preoccupato di aggiornarlo”.

Dunque, c’erano elementi che potevano metterci sulla giusta strada?

Col senno di poi è facile dire queste cose. Tuttavia, gli elementi c’erano. D’altro canto ci sono cose che tutti gli infettivologi sanno . Ad esempio, che un virus Rna può mutare, velocemente, che se si diffonde per via  aerogena  può diffondersi molto velocemente, e che c’è un elemento conosciuto sin dai tempi dell’Aids che sono i cosiddetti “grandi diffusori” che possono contagiare molto di più dei soggetti “normali”, superando anche di 10 volte la capacità di contagio “media”. A febbraio dissi anche una cosa che poi si dimostrò sbagliata, anche se precisai che era legata a quanto si conosceva al momento, vale a dire che al momento non era giustificato il cambio delle abitudini sociali. Ora, si apre un’altra questione: il lockdown totale, aveva un senso o bisognava pensare a dei lockdown più territorializzati?

Tirando le fila, abbiamo scontato due debolezze: uno, l’arretramento incredibile della medicina territoriale, riferendoci non agli operatori bensì ai profili organizzativi. Se si riescono a fare milioni di vaccini sul territorio negli ambulatori di medicina generale, non si capisce perché non ci si poteva attrezzare prima per attivare la reazione: sono mancati dispositivi di protezione individuale, sono state utilizzate delle norme su cui hanno pagato prevalentemente gli operatori sanitari, come la decisione di mantenerli al lavoro, facendo un numero di tamponi bassissimo, pur quando presentavano sintomi. Il profilo che emerge è quello di un sistema sanitario di cui la politica e la comunicazione continuano a ripetere “all’Oms hanno detto che siamo i meglio”, ma su cui si continuano a scontare carenze significative. Oltre alla questione territoriale su cui si poteva fare molto di più, l’altro vulnus riguarda lo stato degli ospedali, su cui il taglio dei posti letto, da un parte, la contrazione enorme dei profili professionali dall’altra, la mancanza di raccordo fra Università e sistema pubblico, la sottovalutazione dei profili di terapia intensiva (la differenza fra la necessità e il numero dei posti in terapia intensiva è notissima), fa sì che ci ritroviamo in una situazione della quale molti non vogliono parlare, questa: noi potremmo anche aumentare il numero dei posti letto in rianimazione, ma non abbiamo rinanimatori. E per formare un rianimatore partendo dal primo giorno della sua formazione, ci vogliono almeno 10-11 anni.

Insomma, ciò che non regge è il modello di sistema?

“Ci troviamo di fronte  a un profilo sanitario che negli anni si è organizzato tenendo presente che si poteva tagliare a vantaggio di una compensazione che sarebbe venuta dal privato, considerazione sbagliata perché il privato su settori come la rianimazione non investirà mai, sulle malattie infettive non investirà mai, sulla pneumologia non investirà mai, perché sono tutti settori estremamente costosi e poco remunerativi. Il primo gravissimo errore è tutto della politica: sono stati tagliati più di 35 miliardi di euro negli anni. Ci troviamo così di fronte  a una quasi sicura seconda ondata molto preoccupante, sulla quale stiamo cercando di correre ai ripari: sull’adeguamento dei posti letto in rianimazione, a ieri, secondo l’elaborazione del quotidiano Sanità, solo tre regioni in Italia avevano raggiunto l’obiettivo che si doveva perseguire e la Toscana non è fra queste. In Toscana fino ad ora abbiamo avuto una gran fortuna, ma nella seconda ondata sta succedendo qualcosa di diverso. Continuiamo a non voler capire fino in fondo. I provvedimenti che dovevano rappresentare il collegamento funzionale regioni-governo, assomigliano ai tagli lineari in economia: metto in moto i provvedimenti più drastici, tengo presente l’obiettivo minimo, che è quello di ridurre possibilmente il carico dei casi, però poi le Regioni avrebbero dovuto provvedere ad articolarli realtà per realtà. Invece, è stato debole anche il monitoraggio. Le reti ospedaliere si sono attivate tardivamente, per cui noi siamo arrivati nella prima ondata con ospedali che stavano scoppiando a fronte di altre strutture vuote. La sensazione che si ha ora, è che alcuni percorsi intraospedalieri siano nettamente migliorati, come alcuni percorsi extraospedalieri legati al rilevameno dei tamponi, sui casi segnalati. Non su tutto il territorio, però. Complessivamente, questa è una mia idea, sembra che la reazione sia un po’ lenta e non corrisponda a quello che è lo stato di emergenza che dovremmo affrontare.

Una delle speranze in questa lotta che ci vede purtroppo sempre un passo indietro rispetto al covid è la ricerca.

C’è un dato che dice molte cose: il fatto che le ricerche non siano state coordinate. I gruppi se ne sono andati ognuno per contro proprio. Sarebbe stato molto utile, da questo punto di vista, organizzare una cabina di regia che coordinasse tre o quattro progetti di ricerca finalizzati a trovare risposte. E’ necessario comprendere che mettere risorse nella ricerca, in questo caso, non è la stessa cosa che investire nella ricerca di base. Quindi c’è un altro vulnus che ci tiriamo dietro, ovvero qual è il ruolo che potrebbe svolgere la ricerca e che tipo di ricerca si può svolgere in quest’ambito. Dunque, bisogna rispondere a due quesiti: qual è il ruolo della ricerca e qual è il raccordo fra ricerca, management e politica. In questo momento, a mio parere ma non solo, il punto debole è proprio il management aziendale e dei presidi ospedalieri. L’altro elemento che emerge è la debolezza del modello aziendale, ovvero la debolezza dei modelli sui quali abbiamo organizzato i reparti ospedalieri. Quindi: territorio arretrato e desertificato, sottodotazione di letti, modelli organizzativi deboli rispetto alla situazione, taglio di risorse, dove si va? Tenendo poi conto che potremmo considerare, con una discreta certezza, che questa contingenza si potrebbe ripetere, magari in  un’altra forma, in un altro modo, con altri profili. Cosa stiamo facendo? Poco.

Dunque, ricerca. Un campo dove tuttavia la Toscana non sembra emergere, fra contingenze sfortunate e momenti di riorganizzazione. Tuttavia è la ricerca a rimanere uno dei pochi spiragli per combattere il virus, la ricerca che è anche finalizzata ai vaccini. 

“Oggi con le tecnologie che abbiamo, la possibilità di produrre un vaccino su un virus che non muta, sono altissime, direi sono una certezza. Arrivare a produrre un vaccino immunogeno, che abbia la capacità di coprire bene il rischio di infezione, è appunto una sicurezza. Il problema è se il virus muta, ma per ora, secondo gli studi della virologia di Ginevra di un paio di settimane fa,  la struttura genomica del virus è rimasta uguale, anche se i virus Rna possono modificarsi in tempi brevi. Si tratta di un’ancora di salvezza importante, così come lo sarebbe avere test rapidi con un’alta sensibilità. L’altro problema che abbiamo avuto infatti è la sensibilità dei test iniziali. Sensibilità in una patologia infettiva epidemica, vuol dire una cosa molto precisa, non è un termine vago, ma è misurabile. Il primo studio fatto in Cina su un test rapido utilizzato dai cinesi, parlava di una sensibilità dell’82%, il che significa, che su 100 persone, rimangono in giro 18 positivi che non vedi. Inoltre, sui test la confusione è stata altissima. Alcune persone sono state messe in quarantena anche più di una volta su falsi positivi. Come mai? Affidare un test a una struttura piuttosto che a un’altra può influenzare il risultato, soprattutto per i tamponi cosiddetti molecolari, che utilizzano le metodologie di ricerca di pezzi del genoma del virus e che abbisognano di standard di laboratorio estremamente alti. Anche su questa storia della diagnostica bisogna far chiarezza: in un’ospedale del territorio si è rischiato di mettere in ginocchio un intero reparto covid dal momento che su un gruppo di una quindicina di operatori sanitari, i falsi positivi risultarono 14. Il punto è che si rischia di non capire più niente.

Tirando le fila del discorso, quali sono dunque le cose che devono essere fatte subito senza ritardare oltre?

Primo passo, elevare in maniera stratosferica il numero dei tamponi concentrandosi in particolare su dei gruppi a rischio. I gruppi a rischio si individuano, come definizione, per rischio d’esposizione: dunque, personale sanitario, laddove ci sono aggregazioni sociali a rischio in strutture poco protette (Rsa), scuole, trasporti, dopodiché, si può normare il territorio. Aumentare il controllo con un test affidabile e far scaturire un sistema di isolamento che nella tempistica e nelle modalità sia basato su quelle che sono le conoscenze ultime: sette giorni o dieci, la parola è alla letteratura. Secondo provvedimento, andrebbe mappata la potenzialità reale delle strutture di rianimazione integrando il personale in tutte le formule possibili, mettendo in linea nei reparti operativamente anche gli specializzandi (superando la polemica infinita dal momento che è stato fatto ovunque, soprattutto nei pronto soccorsi) creando dei possibili volani di riserva rapidi da allestire. Studiare infine molto attentamente sulla base del monitoraggio, l’attivazione della rete territoriale che ora dovrebbe funzionare meglio rispetto all’inizio. Insieme a tutto ciò, per coerenza, far partire 2-3 gruppi di ricerca finalizzati a migliorare la gestione del dato e sulla base di ciò capire tempestivamente cosa si può far meglio, dal momento che in questa situazione anche 48 ore di ritardo possono essere deleterie. Anche sul vaccino, dare priorità ad alcuni gruppi, sapendo che il problema non è solo allestire il vaccino, ma anche produrlo. L’allestimento può anche essere relativamente rapido, poi c’è la fase 1,2,3,4 di sperimentazione e poi la commercializzazione. I monoclonali, dal punto di vista della terapia, non rappresentano una novità assoluta, vengono usati in molti settori. Interferiscono con la fisiologia del virus, colpendo un punto preciso che interrompe la catena evolutiva del virus.

Infine, se lockdown dev’essere, come andrebbe impostato?

Riprendiamo il discorso già intrapreso. E’ necessario concentrarsi sui gruppi a rischio, che però devono risultare da una corretta rilevazione. Dove c’è la concentrazione più alta di casi? E che cosa determina l’infezione? Sono molto preoccupato dall’andamento. Le misure andrebbero sartorializzate e prese su quella che è la realtà. Per conoscere esattamente la realtà, devi sapere, e quindi si torna al discorso dei tamponi, che consentono di comprendere dove c’è la concentrazione più alta di rischio. Infine, un’ultima questione di cui nessuno parla. Abbiamo mai fatto il calcolo di quanto ci costa in termini di mortalità il blocco, ad esempio, delle chirurgie? Stiamo guardando il covid in maniera miope, ma il resto? Non si considera per niente?”.

 

 

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