Firenze – Dibattito partecipato, affollato, senza peli sulla lingua. La Sinistra si riunisce, nelle sue rappresentanze più giovani, e lo fa alla sede della Fondazione Circolo Fratelli Rosselli, a Firenze. E ciò che ne esce è una sferzata straordinaria di voglia di verità, concretezza, ma anche analisi, riaffermazione di identità e voglia, manifestata da molti, di radicalità.
Una radicalità che si basa sui fatti, che non è estremismo, ma richiesta di analisi e decisioni che portino alternative credibili, ragionevoli, possibili. La mattinata inizia alle 9,30 con i saluti e la sintesi del tema del dibattito da parte di Valdo Spini, che presiede. Un padrone di casa prestigioso non solo in virtù della sua storia politica, ma anche della sua mai cessata ricerca di ridare un volto alla Sinistra che torni ad essere propositiva e attrattiva per il futuro. Presenti in sala anche l’esponente repubblicano Simone Aiazzi e Mauro romanelli e Daniela Lastri (Sinistra Italiana). Al “tavolo” siedono il presidente Spini, il professore Antonio Floridia, il giornalista Dario Di Vico, che sulle pagine del Corriere della Sera ha analizzato con lucidità il tema di partenza della discussione-seminario: la vittoria del No al referendum scorso, che tanto ha significato (e significherà) per il Paese e ancor più, per le politiche del Paese. Una serie di dati che scompongono il risultato del voto: alla conferma che lo stop a una stagione politica è venuto per buona parte dalle fasce giovanili, si collega quella che della componente sociale dei votanti (chi è precario, chi si trova a disagio, chi ha perso il lavoro, chi è a rischio di esclusione sociale), quella della differenza fra Nord e Sud, fra città più ricche e più povere. E la linea rossa del No segna con forza sempre la stessa tendenza: si vota No dove il disagio si accanisce, la povertà avanza, il rischio del futuro è avvertito come più alto. non solo, naturalmente, perché anche fra gli studenti, ad esempio, il No è avanti pur senza la perentorietà ad esempio dell’appartenenza geografica, ma di fatto è da chi in Italia ha bruciato le speranze che proviene, più forte, il segnale del No. E bisogna dunque fare i conti, avverte Di Vico, con quella che può essere considerata una delle “colonne” del governo proponente la riforma, vale a dire il Job Act. Come a dire, è sul lavoro che si incentra la questione. Un panorama, che, dice Di Vico, è interessante sotto due aspetti almeno: da un lato, perché l’impianto dell’intera legge, che tendeva secondo il giornalista, a stabilizzare il lavoro, si è scontrato con delle contingenze che si sono mosse non nel senso previsto: in altre parole, la crescita che era stata messa sul tavolo non c’è stata. Dall’altro, la seconda parte, vale a dire le politiche di sviluppo del lavoro, non sono state attuate. Conseguenza, anche, di quella non avvenuta crescita su cui si era fondato l’impianto della legge sul lavoro. Paradosso: dai dati Istat, prendendo un arco di tempo che copre un anno, dal novembre 2015 al novembre 2016, si potrebbe estrapolare che una legge pensata per i giovani ha avuto come effetto quello di dar lavoro ai meno giovani, dal momento che nell’anno analizzato, gli occupati della fascia 25-34 anni sono calati di 88mila unità, quelli dai 35 ai 49 anni di 160mila unità, mentre l’aumento di occupazione si è avuto dai cinquantenni in su: +453mila unità. Pur scontando un effetto statistico dovuto alla progressiva “anzianità” del lavoratore, che lo fa “cadere” via via nella categoiea “over”, un altro dato tende ad allargare la stessa, vale a dire, la Legge Fornero. Lanciando una provocazione, dunque, si potrebbe affermare per paradosso, che ad ora la “vera riforma del lavoro è stata la legge Fornero”. Fallimento del Job Act, dunque? No, dice Di Vico, contestando alcuni punti, fra cui la natura stessa del “nuovo” mercato, che accanto ad una quota si stabilizaati pretende la sussistenza di un’altra di “lavoro flessibile”, ma anche la necessità di accompagnare le famiglie e i ragazzi nella formazione di competenze, dal momento che è proprio questo che secondo quanto spiegato, rischia di configurarsi come il tallone d’Achille della società italiana nella produzione di nuovi soggetti da inserire nel mercato del lavoro. Fra i punti critici, viene sfiorato anche il problema delle lingue, della formazione antiquata e troppo teorica, tutti dati che comunque vanno ricondotti all’idea stessa di formazione e dunque di scuola, in una logica che Di Vico chiama “occupabilità”.
Un altro problema che viene posto con forza dal “tavolo”, nel contributo del professor Antonio Floridia (Osservatorio elettorale Regione Toscana), è quello dell’impatto sociale del voto configurato questa volta come un elemento importante per comprendere come muta, se muta, e se è in pericolo la stessa democrazia. Infatti, sotto analisi è, per il professore, la “drammatica illusorietà di una visione che si affida al privato marketing elettorale”, su cui i “fatti” si prendono la rivincita. Dunque, ciò che emerge è una politica che non è in grado di porre mete credibili e che dunque perde essa stessa sul fronte della credibilità, una politica debole a livello strategico che si unisce alla conseguente volatilità elettorale. Senza contare il paradosso di voler rispondere al populismo col populismo, una risposta che, lungi dal riscattare la politica dalla debolezza in cui si trova, finisce viceversa per legittimare lo stesso populismo. Tant’è vero che ad oggi, dice Floridia, “non esiste alcun soggetto democratico forte che possa far uscire la politica dalla contrapposizione sistema-antisistema”. E se una ricetta può essere suggerita, dice il professore, “è quella di andare verso una nuova polarizzazione anche ideologica Destra-Sinistra”. La contrapposizione insomma che ad oggi è diventata noi-loro, deve tornare ad essere fra interessi e valori. Del resto, l’inattaccabilità del M%S è proprio in questo suo porsi fuori dalla logica della politica, che è quella del confronto fra interessi-valori, creando una posizione a cui è indifferente scivoloni-accadimenti-realtà, perché siede sulla logica noi-loro.
E’ l’imprenditore Andrea Puccetti, presidente di Mal, coordinatore del dibattito, a mettere sul tavolo il ruolo dello Stato nell’economia del Paese e non solo. Se infatti il ruolo dello Stato è “cercare di favorire le condizioni dello sviluppo”, cosa sta facendo sotto questo punto di vista lo Stato italiano? Forse, suggerisce, le risorse messe a disposizione una tantum nonostante le limitate possibilità italiane, potevano essere impiegate in un contesto strutturale più ampio, mettendo in luce la possibilità di utilizzare il cuneo fiscale per riorientare le spese verso il sostegno dei consumi e dunque la ripresa del lavoro. Anche perché, ricorda Puccetti, “la ripresa che è ripartita in Europa e che è stata acchiappata da alcuni Paesi” sembra per ora non riguardare l’Italia, dove proprio in questi giorni si parla di deflazione. Proposta: una sorta di alleanza con Paesi simili, senz’altro la Francia, per creare una sorta di fronte comune forti del quale andare a ridiscutere in Europa.
Il dibattito si rinfocola con la lunga lista degli interventi dei “giovani”, nonostante una grintosa Elena Mosti, assessora di Massa, contesti il termine. Un’ampia rappresentanza, da consiglieri comunali a esponenti e militanti del Pd e Sinistra Italiana, si va da chi ha votato Sì “con convinzione” a chi ha votato, con altrettanta convinzione, No. Eppure ciò che coagula gli interventi è, in buona sostanza, la segnalazione della perdita di speranza nel futuro delle generazioni giovani. Fra gli intervenuti, Luigi Bennardo, Diego Blasi, Alessio Franchino, Matteo Gorini, Alessandro Guadagni, Elena Mosti, Alessandra Nardini, Olga Nassis, Luca Perinelli, Erica Schiavoncini, Luca Simoncini, Laura Sparavigna, Matteo Vieri. Come una cartina tornasole, il No referendario è occasione, di volta in volta, di richiami al ruolo della Rete e della rappresentanza, del valore della partecipazione, con una forte sottolineatura rsipetto alle politiche del lavoro e della formazione.
Tirando le fila, si può dire che, pur nelle diversità attinenti a storie politiche e convinzioni diverse, la richiesta che si alza è duplice: da un lato, la necessità di un’alternativa: politica, economica, sociale, da costruire sulla base di analisi che ripropongano e delucidino prima di tutto le priorità dell’azione politica, smarrite in cerca del consenso e della governabilità rispetto alla ricerca del bene comune (da qui la “radicalità”: l’alternativa, dicono in molti, deve essere giocoforza radicale, dal momento che il sistema che ha significato finora impoverimento di larghe fasce di popolazione e nascita di contrapposizioni “populiste” con conseguente perdita di rappresentatività e credibilità della politica, non può essere “salvato” correggendo le virgole); dall’altro, quella di ricostruire la “credibilità”. Una credibilità che si raggiunge con la proposta di soluzioni, ma senza perdere l’identità, dal momento che è quest’ultima a suggerire le priorità. Ed è sulle priorità che si dà una classe politica e un sistema politico, che si formano le soluzioni. Un passaggio obbligato per la Sinistra, anche se travagliato e laborioso, pena, dice Matteo Gorini, Sinistra Italiana, “l’erosione da parte della Destra sociale” del ruolo della Sinistra nelle società complesse che viviamo. Ipotesi che, d’altra parte, sembra avanzare rapidamente in tutta Europa.