La straordinaria esistenza di Aung San Suu Kyi, leader birmana per 21 anni agli arresti domiciliari per la lotta non violenta perpetrata contro il regime militare che governa il paese del Myanmar è di per sé così affascinante da rendere quasi un orpello la costruzione drammatica che ricostruisce in scena la sua vicenda.
Le sue scelte, la sua vita pone tutti quanti di fronte all’abisso di una esistenza di abnegazione completa ad una causa che sconcerta, di fronte alla quale il normale senso civico (e aggiungerei l’italico senso civico) risulta disintegrato e pur comprendendone le motivazioni e ammirandone lo spirito viene da chiedersi, con cinico realismo e triste empatia, se il risultato valga, tale prezzo.
La messa in scena del Teatro delle Albe, scritta e diretta da Marco Martinelli e interpretata da Ermanna Montanari sembra dire di sì, che il sacrificio straordinario di questa esistenza, il suo esempio così trascendente da dover essere, occasionalmente, riportato in una dimensione terrestre di frustrazioni e sofferenze, sia necessario, in questi tempi bui, almeno per credere ancora nei principi di verità e giustizia, nel poter fidare nella forza della democrazia come espressione del bene comune.
In un mondo determinato dalla violenza un esempio unico e irripetibile, ma dotato di forza e carisma, può dare alle persone semplici, alla grande massa di ininfluenti della storia, una speranza. E questo vale – ecco credo anche il motivo della nostra fascinazione verso questa figura mite e irriducibile – anche per il democratico Occidente, in cui prevalgono forme diverse di violenza, costrizione e sopraffazione e dove la pancia è piena, ma il cervello non è per questo più libero dalla paura (questo, probabilmente, lo spunto sul quale si innesta, in scena, una rapida incursione di Bertolt Brecht come rappresentazione meta-teatrale della prevaricazione e della violenza).
Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi vuole essere prima di tutto, prima che una biografia, prima che una vicenda personale, un esempio di teatro politico, di impegno, di sacrificio.
La vicenda si interrompe nel 2010 quando è terminata, si spera per sempre, l’ultima fase di prigionia della protagonista e senza sapere che nel 2015 si sarebbero tenute le prime elezioni libere del paese in cui il partito di Aung San Suu Kyi ha ottenuto una larga maggioranza e intende assumere un ruolo di rilievo in quel Governo nazionale che sarà alle prese con un percorso estremante irto di difficoltà e ostacoli.
Una vittoria quasi ininfluente, per il messaggio generale dell’opera, che nella opposizione nonviolenta, nello spirito intelligente e benevolo, che nella opposizione, più ancora che nel risultato, vede la vera luce di questa storia, nel restare umani di fronte al’imbarbarimento dell’esistenza, alla servitù volontaria.
Un’opera commoventemente politica, quella di Martinelli, che nella vicenda personale ricerca il messaggio universale, l’essenza profonda e umana, la necessità di ribadire l’appartenenza a valori comuni, a prescindere dall’esotica ambientazione – a tratti espressionista e caricaturale, proprio per evidenziare la disumanizzazione – e dalla incredibile (sovrumana) tenacia di questa donna.
Molto contenuta e vibrante l’interpretazione di Ermanna Montanari – come il personaggio richiedeva – per un risultato finale estremamente interessante.