Ora che i funerali di Silvio Berlusconi si sono svolti, ancora una volta dividendoci tra chi ne ha proposto una santificazione laica e chi ne ha di nuovo recitato i capi d’accusa, mentre si trattava semplicemente di avere di fronte alla morte un atteggiamento di rispetto umano dovuto a ogni persona, si può iniziare, solo iniziare, una riflessione sul suo percorso civile e politico.
Mi ha convinto l’equilibrio dell’omelia svolta nel Duomo di Milano dall’arcivescovo Mario Delpini, che ha messo in luce meriti e tentazioni di ogni uomo d’affari, di ogni politico, di ogni personalità esposta alla luce dei riflettori, riconsegnando poi il bilancio complessivo dell’uomo Berlusconi al suo incontro con Dio. Una riflessione critica per quanto provvisoria della parabola di Berlusconi non può tuttavia rinunciare ad assumersi la responsabilità di una valutazione.
Berlusconi è stato un uomo che ha diviso il paese: forse è stato anche il prezzo di una disinvoltura che da imprenditore si è portato dietro nell’impegno politico. Il suo capolavoro è stato la creazione di un impero televisivo, che gli ha dato successo, influenza, mezzi per cambiare le gerarchie di valore degli italiani.
Anche in questo caso l’analisi è complessa: ha aperto l’orizzonte dello sguardo al mondo, ha affascinato con le spettacolarizzazioni, ha moltiplicato l’efficacia della pubblicità e ne ha rafforzato l’intreccio con l’economia. Il modello è stato l’individualismo americano, il mito del farsi da sé, condito da una curvatura amorale, che ha le sue radici nei ritardi storici del senso civico del nostro popolo. Ciò che conta è il successo, l’autoaffermazione: il come è irrilevante. Anche il calcio è parte di questo sistema: spettacolo, successo, consenso. Ne emerge un invito implicito alle persone: impegnatevi nel lavoro e godetevi il privato.
Non c’è bisogno di solidarietà, di occuparsi del sociale: comodi a casa, in poltrona, il divertimento è servito. La scesa in campo di Berlusconi nella politica è coronata da un esito inimmaginabile: in pochi mesi fonda un partito, vince nel 1994 le elezioni dopo avere legittimato il MSI e stretto un’alleanza al nord con la Lega e al Sud con il partito neofascista. Dura poco il governo, qualche mese. Poi il cammino all’opposizione, dal 1995 al 2001, a cui seguono cinque anni di potere e la nuova sconfitta, sempre ad opera di Romano Prodi, nel 2006.
L’ultimo spazio alla guida dell’Italia è il triennio 2008-2011, che si chiude con il paese che sprofonda nel baratro dello spread, la voragine del debito pubblico e il modello delle feste osé di Arcore, il bunga bunga divenuto oggetto di discredito e ironia, tanto da essere rappresentato nei carnevali del mondo. L’etica privata, con i desideri affermati in diritti, contagia l’etica pubblica. Berlusconi aveva annunciato la sua entrata in politica con l’obiettivo di una rivoluzione liberale, che riorganizzasse Stato e sistema politico: niente di tutto questo si è concretizzato. Gli annunci liberali si sono sposati con l’irrisolto conflitto d’interessi, la riforma delle istituzioni con una legge elettorale battezzata dal suo stesso ideatore “porcellum”, le innovazioni nell’economia con il clientelismo corporativo. Liberalismo e populismo si sono intrecciati.
Eppure, quest’uomo ha cambiato l’Italia: per me fotografandone e sacralizzandone vizi e ritardi, ma innegabilmente incidendo sul costume, le aspettative, la convivenza. In primo luogo, ha modificato il sistema dei valori, incentivando l’individualismo senza responsabilità; poi il sistema dei partiti, promuovendo a modello universale il partito personale, la delega anziché la partecipazione; infine, il mondo dei media risucchiando nella logica esclusiva dell’audience anche la tv pubblica.
La sua politica non ha trasformato in meglio l’Italia, ma ha imposto dei modelli. Certo è una vittoria fragile, come oggi più chiaramente si vede. Il partito personale ha accompagnato la crisi della sinistra ma ora mette in forse il futuro della sua creazione, Forza Italia, perché il leaderismo non costruisce assetti stabili e si nega l’avvenire, quando il “demiurgo” viene meno.
Berlusconi e la giustizia avrebbe bisogno di un capitolo a sé: molte volte imputato, molti processi, una sola condanna ma grave, quella per frode fiscale, a cui si accompagnò la decadenza dal Parlamento. Una condanna per un reato serio, ancor più per chi si impegna nella vita politica. Nella sua critica al sistema giudiziario Berlusconi coglieva anche aspetti reali, il bisogno di una riforma: la vicenda di “mani pulite” ha spostato gli equilibri tra sistema politico-istituzionale e magistratura e a risentirne sono stati i cittadini nel loro insieme, non soltanto gli eletti.
La risposta fu però affidata da lui e dalla destra a leggi ad personam, non a leggi che ricostruissero giusti equilibri, nel rispetto delle reciproche autonomie, sancite dalla Costituzione.
Nel panorama schematico e parziale di un giudizio sul tempo di Berlusconi è infine da mettere in evidenza il suo europeismo e la ricerca di vie di dialogo tra i popoli, a volte unita a rivendicazioni inverosimili di protagonismo. Non mi sento oggi di ironizzarci, come allora mi capitò di fare: si è in presenza di una guerra anche nel nostro continente, che non mostra azioni diplomatiche per una pace giusta e la destra che sta prevalendo, in Italia e in importanti nazioni, non ha visioni europeiste ma si propone, in luogo della democrazia liberale, regimi autoritari e illiberali. Della destra di Berlusconi fa proprio solo neoliberismo economico e privatizzazioni del welfare.
Vannino Chiti