I nostri consumi e le nostre abitudini sono cambiati negli ultimi anni a seguito dell’avvento delle vendite online. Molte aziende, straordinarie per comodità, efficienza e rapidità ci portano a casa tempestivamente beni e servizi dopo un clic. Un innegabile beneficio. Tutto questo ci ha reso utenti facili da accontentare (e sempre più pigri). Con due effetti collaterali, da una parte la fuga dalle vendite tradizionali e la chiusura dei negozi di prossimità, dall’altra una perdita di fiscalità generale.
I negozi tradizionali si sono visti braccati da una nuova concorrenza, quella dei giganti multinazionali delle vendite on line, che ha saputo negli anni fare una tale massa critica da dettare legge nel commercio al dettaglio globale, con la conseguente desertificazione del settore della vendita tradizionale al dettaglio. Anche in conseguenza di ciò, secondo il dossier di Confesercenti, tra il 2014 ed il 2024 sono sparite dalle vie e dalle piazze italiane oltre 140 mila imprese del commercio al dettaglio in sede fissa, di cui quasi 46.500 attività di vicinato “di base”, al ritmo di quasi 13 al giorno, dai negozi alimentari alle edicole, dai bar ai distributori carburanti. E già oggi oltre 26 milioni di italiani vivono in comuni che hanno visto scomparire definitivamente dal proprio territorio una o più imprese di vicinato essenziali. “I negozi si ritirano, la desertificazione commerciale avanza“, ha dichiarato la presidente di Confesercenti, Patrizia De Luise, che ha spronato a passare dalla “rottamazione” del commercio, prevista dalla normativa del1998, alla rigenerazione delle economie urbane.
Su questo fenomeno ha recentemente posto l’accento anche il Capo dello Stato Sergio Mattarella: “Non va mai dimenticato che il tessuto connettivo del commercio e dell’imprenditoria diffusa costituisce elemento di coesione della società. Non va lacerato il tessuto dei piccoli esercizi, dei negozi storici delle città e dei paesi. La pluralità è un bene prezioso. C’è una biodiversità che ha grande valore anche sul piano economico e sociale. Indebolirla sarebbe autolesionistico. La vivibilità, la sicurezza, la socialità dei quartieri, dei centri più piccoli, dei borghi, dipende da questa rete di presenze”, ha ribadito il Presidente della Repubblica, intervenendo proprio all’Assemblea della Confesercenti. “I rischi più consistenti di chiusura dei negozi -ha quindi ricordato il Capo dello Stato – gravano in modo particolare proprio sulle aree interne e rurali, sui territori montani, sui paesi divenuti ora, con la rarefazione dei servizi, più lontani dalle reti infrastrutturali, dalle scuole e dagli ospedali. Va interrotto il circolo vizioso che si realizza con declino demografico e desertificazione commerciale e dei servizi. Il divario che penalizza le aree interne – e che assume non di rado il carattere di un vero e proprio spopolamento – è un freno allo sviluppo di tutto il Paese, e non soltanto di aree limitate. La leva del commercio, la leva del turismo, sono preziose. Essenziali”.
È giunto allora il momento di porre in maniera ancora più radicale, chiara e trasparente il tema della fiscalità sul settore delle vendite dei giganti multinazionali, anche on line, che sottende in parte a questo stato di cose. E’ innegabile che i redditi di questi giganti sono prodotti in Italia, in quanto scaturiscono dalla fornitura di beni e servizi sul suolo nazionale, e questo vale per tutti i paesi membri dell’Unione Europea. Non è più accettabile che la fiscalità potenziale di questo settore rilevante vada altrove, calcolata su utili che vengono spesso a determinarsi contabilmente in altri paesi, talvolta in altri continenti, con il risultato di un depauperamento della fiscalità generale del paese nel quale il prodotto-servizio è invece effettivamente ceduto. Con conseguente impoverimento delle risorse da utilizzare per welfare e redistribuzione, per sostegno al potere di acquisto e ai salari.
Un sistema molto rapido e tranchant per riequlibrare le cose? Una Click Tax, da discutere naturalmente a livello europeo. Una tassa che si generi automaticamente al momento del fatidico “clic”, in cui l’utente finale sul computer, sul tablet o sullo smartphone perfeziona l’acquisto. In quel momento fatidico, cioè, nel quale noi tutti utenti finali forniamo la carta di credito e l’indirizzo di spedizione. La Click Tax si applicherebbe così direttamente sul fatturato, sulla vendita, potrebbe calcolarsi con una sorta di cedolare secca, di ritenuta diretta alla fonte. Si andrebbero a recuperare in modo diretto risorse, che gli Stati potrebbero destinare alle politiche di welfare, e sostegno ai salari.
A un recente convegno della Fondazione Circolo Rosselli, presieduta da Valdo Spini, avente ad oggetto il tema dei salari, ho sottolineato come ai salari minimi debba corrispondere una capacità reale, effettiva, d’acquisto delle persone di quei beni e servizi essenziali a una vita dignitosa. Si tratta di un tema che non può essere più (solo) costretto alla logica contrattuale fra la parte imprenditoriale e i lavoratori, come avveniva quando il mondo economico sostanzialmente viveva in un sistema-mercato chiuso o puramente interno. Ora la globalizzazione ha spostato la produzione, ci sono settori che fanno una competizione globale. Le filiere, supply chains, sono lunghe, spesso sovra continentali. Cosa significa? Significa che la ricchezza c’è, ma è spesso finita altrove. A chi dice che non c’è, rispondo: basta sapere dov’è.
Parliamo di multinazionali, ma non perché le multinazionali siano qualcosa di negativo. La domanda è: l’Europa è in grado di andare a intercettare nuova fiscalità, nelle nuove filiere della produttività, nelle nuove Supply Chains, per fare redistribuzione e sostegno al reddito come faceva un tempo? La tassazione va effettivamente a intercettare i fatturati e i redditi delle multinazionali in modo adeguato, affinché questi compartecipino adeguatamente alla fiscalità generale? E’ sufficiente prevedere tasse sugli utili, laddove, è risaputo che o si tassa il fatturato, oppure è pressoché impossibile in taluni, rilevanti casi, intercettare quegli utili poiché dichiarati altrove, stante la lunghezza e la complessità di alcune supply chains?
I ricercatori di Tax justice network stimano che quasi la metà degli investimenti esteri diretti, effettuati ogni anno siano “investimenti fantasma”. Si tratta di fondi che non entrano concretamente, cioè, nell’economia degli Stati per poter spostare i finanziamenti e pagare meno tasse. Svizzera, Olanda, Irlanda e Lussemburgo sono al vertice mondiale delle giurisdizioni che favoriscono tali abusi con oggetto le tasse delle corporations. Quattro dei primi dieci paradisi fiscali più utilizzati dalle multinazionali per pagare meno imposte sono cioè qui, in Europa.
L’Europa ha fatto più di un tentativo importante per rimediare a questo stato di cose, ma l’obiettivo non è andato pienamente a segno, proprio perché la tassazione ricade ancora sugli utili, con le criticità espresse sopra. È perciò necessario guardare verso una massa di risorse finanziarie importanti che permetterebbero ai governi dei Paesi di mettere a punto manovre anticicliche, con una prospettiva nuova e più radicale.
Il tema riguarda anche le politiche di sostegno al reddito, come il salario minimo, che è corretto dove la contrattazione nazionale non arriva o non è adeguata. Senza una fiscalità europea, le aziende non possono sopperire a una redistribuzione generale adeguata, con risorse sufficienti, come con il welfare di secondo livello. È un tema europeo e la logica deve essere sovranazionale. Dobbiamo recuperare e riequilibrare le aree di fiscalità generale per la comunità, in un contesto di povertà e disuguaglianze crescenti. Le prime vittime sono i cittadini a reddito fisso medio-basso, che vedono diminuire il loro potere d’acquisto, mentre molte multinazionali si fanno d’oro.
Lo stato dell’arte in Europa in tema di tassazione delle multinazionali, qual è? Non siamo totalmente fermi, ma non basta, occorre accelerare. L’Unione Europea ha raggiunto un accordo storico per una nuova imposta minima del 15% sugli utili delle grandi aziende, con l’obiettivo di contrastare il dumping fiscale e aumentare le entrate fiscali globali.
I capisaldi dell’accordo sono tre. L’imposta minima del 15% da applicare alle aziende con entrate superiori a 750 milioni di euro, con alcune esenzioni per enti specifici come enti governativi, ONG e fondi pensione e di investimento. Secondo caposaldo, gli Stati membri dell’UE dovranno recepire le nuove regole nella propria legislazione nazionale, con l’OCSE che stima un incremento annuo di circa 150 miliardi di dollari nelle entrate fiscali globali. Si tratterebbe però di appena lo 0,46% di quei 32.000 miliardi di dollari che le Nazioni Unite stimano come la quota di commercio globale del 2024. Infine, ulteriore caposaldo dell’accordo, una imposta integrativa secondo la quale una società madre con sede nell’UE sarà obbligata a pagare la differenza tra l’aliquota minore delle sue filiali e quella minima del 15%, con l’obiettivo di mitigare l’erosione fiscale e il trasferimento degli utili.
Il punto critico rimane: questa riforma, pur rappresentando un passo in avanti rispetto al passato, continuerebbe a operare sugli utili e non sul fatturato, con l’inconsistenza, la aleatorietà e volatilità del modello. Cosa che non avverrebbe con una vera e propria Clic Tax.
Sono certo che questa potrebbe essere minima, tali sono i fatturati in ballo. Tassa che, opportunamente calibrata a tali fatturati, potrebbe godere di opportuni meccanismi di conguaglio per integrarsi nel sopra citato meccanismo Ocse. A ben vedere la redistribuzione che opererebbe, non la renderebbe una norma punitiva. Tutt’altro. Ridarebbe ossigeno non solo ai piccoli operatori e dettaglianti (grazie alla maggiore competitività dei loro listini), ma anche alle stesse vendite on line, grazie alla ricaduta positiva che potrebbe permettere sui salari e sul potere di acquisto di tutti gli utenti. L’Europa deve essere unita a breve termine per difendersi e generare un vantaggio nel medio termine a vantaggio degli stati membri, le cui popolazioni sono tutte toccate da questo stato di cose.