Firenze – Mi ricorderò sempre di quella ragazzina paffuta, che all’uscita di scuola additò la mia maglietta bianca di importazione statunitense come il più grande male su questa terra, solo per la stampa dei caratteri cubitali U. S. A. che riportava sopra. Sarà perché le piacevo, sarà che ci credeva fermamente, ma fu uno dei primi sintomi di un morbo più grande. Avrei dovuto capirlo subito, invece mi ci volle ancora un po’, ma già non mi stupivo di un comportamento così stupido. Lei come me, aveva ricevuto un’educazione fiorita nei salotti della sinistra italiana e, per quanto fossero buone le intenzioni con cui ci avevano impartito tali nozioni, il risultato di tale dottrina, nella tipica repulsione adolescenziale, fu un odio cieco verso tutto ciò che è America.
La differenza, tra noi, che mi permise d’ indossare quell’indumento così futile e patriottico, seme di quella discordia temporanea, oltre alla necessità di aver qualcosa di poco conto da poter inzuppare nell’ora di ginnastica, era che il problema dell’ anti-capitalismo ad oltranza me l’ero posto molto tempo addietro. Come avrei potuto boicottare ogni singolo prodotto americano quando tra le mie più grandi passioni vi erano quelle letture così fantastiche e avvincenti di Batman & Co.? Come potevo privarmi di una passione simile e allo stesso modo non tradire i miei ideali? L’infantile gola ebbe facile presa sul me quattordicenne e scelse al mio posto, modificando geneticamente la mia concezione di uomo (per meglio dire ragazzo) di sinistra. Avrei dovuto vergognarmi, chissà, visto che, di fatto, qualche ideale lo tradii, poco importa se ad oggi ne ho una diversa considerazione, lo feci, ed evidentemente non sono così fedele come mi piace pensare. C’è chi s’impiccherebbe per questo (harakiri per essere precisi), ma riconosco che l’aver conciliato il dovere al piacere è stato il primo passo verso la maturità. In fondo, tutto quel che la dottrina comunista mi suggeriva era vero, che i supereroi, come ogni altro prodotto statunitense, erano frutto di una società malata, un’esaltazione della giustizia fai da te e dell’individuo rispetto alla collettività, ma vero era anche tutto il resto e cioè che quegli odiati buoni sentimenti di eguaglianza sociale, popolare e populista, di altruismo o generosità verso il prossimo, non erano poi così diversi dai dettami della sinistra in cui mi hanno cresciuto. Il trucco sta proprio qua, nel saper leggere ciò che abbiamo davanti e scindere, smontare, demolire e ricostruire solo dopo aver conosciuto senza preconcetto alcuno. Quella ragazzetta dei tempi andati non aveva alcuna colpa, ma era vittima del radicalismo nemico di ogni ragione e, come ci ha ricordato Goya, se questa dorme i mostri usciranno a frotte nelle nostre strade. Una mentalità tanto fascista quanto naturale, sembra, per l’uomo, visto quanto è diffusa oggigiorno, che le ha concesso una facile gogna per un comportamento di cui lei stessa era inconsapevole fautrice: non vestiva a stelle e strisce, ma di Stati Uniti era pieno il suo walkman, certo, di cosiddetti gruppi ribelli, underground, ma non è poi tanto diverso. Io, invece, ero già su un sentiero vagamente più obbiettivo, lontano da estremi settarismi: si può dire che, in un certo qual modo, Batman mi abbia salvato da quei mostri.
Da quando i comics sono venuti al mondo, in particolare quelli dedicati ai supereroi, hanno sempre dato scandalo per i benpensanti, ma oggi i più indignati sembrano essere gli addetti ai lavori, autori o fan che siano. Se negli anni ‘60 uno psichiatra creò una psicosi di massa ad hoc pur di vendere qualche libro, sfruttando la paranoia delle mamme benpensanti d’America, con una crociata contro i supereroi, nel 2017 ci sta pensando il mondo del cinema ad affondare invano un veliero che naviga a gonfie vele sin dal ‘38 con molti più argomenti di quel che non si pensasse. Andreotti diceva che a pensar male si fa sempre bene, quindi può essere tutta invidia, ma più il tempo passa e più cineasti e autori prestigiosi fanno a gara nello spender parole poco garbate sugli eroi in costume. Certamente è una tattica per arginare l’infinito sbarco dei comicbook sul grande schermo, una migrazione che ha spostato l’attenzione del pubblico dai cosiddetti grandi registi ai fumetti di giustizieri e vendicatori (oltre a riempire un’ astinenza di originalità di cui Hollywood soffriva da tempo, portando nelle sue casse miliardi e miliardi di profitti), o una puerile reazione per quel che gli eroi della cellulosa hanno raggiunto, cioè arrivare laddove i maestri della celluloide non riescono più, ma il risultato è che questi miti della pellicola appaiono vecchi, stanchi, ridicoli e ottusi.
Queste leggende viventi della camera sono assai più simili a quella mia compagna di scuola di quel che non si possa pensare e molto più pericolosi. La loro fama e giusta credibilità nel campo cinematografico, rende ogni loro affermazione legge per quei molti, ahimé, che come loro non sono abituati ad analizzare e scegliere prima di avallare una tesi e dal loro balcone di Palazzo Venezia, volenti o nolenti, manipolano il pensiero di massa e nemmeno nella direzione più conveniente per la specie.
“Non ne posso più della propaganda americana” tuona Luc Besson e via che tutti i sinistroidi del Bel Paese si apprestano a boicottare – o, peggio ancora, guardare solo per disprezzare – il prossimo film con protagonisti i membri della Lega della Giustizia della Dc Comics, magari. Ma di quale Propaganda sta parlando, Messer Besson, di un gruppo di persone che si associano per fare del bene? Perché è di questo che parlano, più o meno efficacemente, quei film e anche se fosse, non credo che ne dovrebbe parlare un minuscolo regista francese che ha costruito un piccolo impero emulando i film d’azione d’Oltreoceano.
Ma non finisce qui: “Sono esausto. Completamente. Insomma, era grandioso dieci anni fa quando avevamo visto il primo Spider-Man e dopo l’uscita di Iron Man. Ora siamo al numero cinque, sei, sette… c’è questo supereroe che collabora con quest’altro supereroe, ma non sono della stessa famiglia.” Così scopriamo un Besson razzista, perché non sopporta, parole sue, che persone di diverse famiglie collaborino insieme e, nel migliore dei casi, di una mentalità più ristretta di mio nonno visto che si confonde per un banale multiverso narrativo: Luc, mai sentito parlare di Tolkien?
E conclude con una perle di acume: “Ma ciò che più mi dà fastidio è la retorica sulla supremazia dell’America e di come gli americani siano grandi. Insomma, quale Paese al mondo avrebbe lo stomaco di chiamare un film “Capitan Brasile” o anche “Capitan Francia”? Nessuno. Noi ci vergogneremmo a tal punto da dire “no, questo non possiamo farlo”. Ma loro invece possono. [Gli Stati Uniti] chiamano un film Captain America e tutti pensano che sia una cosa normale! Io non sto qui a fare propaganda, sono qui per raccontare una storia.”
E sì, non posso dargli torto per il tipico far da gradasso americano, ma in fondo vietano qualcosa a noi altri? Sicuramente non in campo artistico, eppure Besson pare soffrire della fisima dell’organo riproduttivo più breve: loro possono, noi no, quindi loro sono cattivi, gne, gne. Suvvia, comportiamoci da adulti, almeno alle soglie dei sessant’anni, vuoi fare Capitan Francia? Fallo, Luc, che lo sforzo sia con te! La fantasia è bella per questo, perché si può osare, o forse si deve solo in una direzione? E chi decide qual è? Il Sindacato del Cinema D’Autore? E poi un francese che accusa un prodotto d’intrattenimento di esser strumento di propaganda fa un po’ ridere, no? Come se lo avesse prodotto direttamente il governo U.S.A. o la C.I.A. Besson ti consiglio un ripassino dal Professor Barbero, non ti farebbe male.
Ma l’ingenuo francofono non è il solo a sostenere la vecchia teoria della propaganda imperialista. Vi ricordate di Die Hard e Predator? Due classici del genere botte da orbi con un Bruce Willis iper macho nelle vesti di un giustiziere spaccatutto ed un cacciatore alieno dedito al Safari umano. L’artefice di queste pietre miliari, John McTiernan, scomoda addirittura motivazioni ideologiche di dubbia veridicità : “Io odio parte dei film per motivi politici, sul serio, non riesco a vederli. Mi infastidiscono a pochi secondi dal loro inizio. Capitan America, non sto scherzando… Il culto di iper-mascolinità americana è una delle cose peggiori che sono arrivati nel mondo negli ultimi cinquant’anni. Centinaia di migliaia di persone sono morte a causa di questa stupida illusione. Come si può allora guardare un film che si chiama Captain America?”
Ha bisogno di un buon psichiatra mr. McTiernan se taccia un film supereroistico per quelle stesse caratteristiche incarnate così poco velatamente dai protagonisti dei suoi film, grazie alle quali ha avuto tutto il successo e la popolarità che ha voluto. Se proprio dev’esser così eccessivo e fuori luogo perché non si trasforma in un contemporaneo San Francesco e non vive di cristiana carità, devolvendo tutti quei bei quattrini così “insanguinati” da quelle centinaia di migliaia di morti? Sarebbe un bel gesto per fare ammenda all’aver così efficacemente contribuito alla glorificazione di questo, come l’ha chiamato, culto di iper-mascolinità americana, non crede?
A quanto pare a queste famigerate icone non piace proprio il Capitano, ma sparare sul buon Steve è un po’ come farlo sulla Croce Rossa. Chiunque sia figlio della sinistra, italiana od anglosassone ci ha provato almeno una volta, è un cliché trito e ritrito che ormai non fa più alcun effetto (speciale).
(continua)