Insomma, con la cultura si mangia o non si mangia? Si mangia eccome, a dispetto del monito dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti che, negandolo (ma lui ha sempre smentito), ha scatenato un infuocato dibattito sulla gestione dei beni culturali, con visioni politiche e antropologiche contrapposte.
Dal ministro Franceschini in poi, che con la cultura si mangi è un dato acquisito e condiviso. Del resto, si capì subito come la pensava quando, già in occasione del suo primo giuramento al Quirinale nel 2014, disse: “Mi accingo a guidare il principale ministero economico del nostro Paese”. Quindi sì, si mangia, ma il punto è come si imbandisce la tavola, che menù si offre, si privilegia qualità o quantità? La corsa alle abbuffate che spesso si è scatenata, ha prodotto solo benefici o anche costi?
Fuor di metafora, il punto è come dare valore e come è stato ‘valorizzato’ il nostro immenso patrimonio culturale. A queste domande cerca di dare risposte l’ultimo libro di Carlo Pavolini, ex funzionario archeologo presso le Soprintendenze di Ostia e Roma ed ex professore dell’Università della Tuscia. Ma c’è una questione preliminare, quella che dà il titolo al libro, ‘Quale valorizzazione’ (Robin Edizioni 2023) . Dalla risposta dipende l’impostazione delle politiche culturali, e Pavolini ne traccia le coordinate storiche a partire dalla riforma di Franceschini, facendo un’ampia disamina del significato di ‘valore’, che non è per niente scontato.
Si parte addirittura da Marx con la sua distinzione fra valore d’uso e valore di scambio. Il primo richiama alla finalità primaria del bene culturale, legata al “potenziamento delle risorse intellettuali della persona”, quindi alla cultura come ‘valore in sé’ e al bene pubblico come ‘valore sociale’. Questa impostazione, pur sembrando condivisa e indiscutibile ha subìto una evoluzione nel senso di privilegiare il valore di scambio del bene culturale, volendolo produttivo e monetizzabile. Le due visioni, invece di dialogare, sono diventate terreno di scontro, ancora più duro quando si è inserita la polemica del ricorso o no ai privati per la gestione del patrimonio. Lo stesso Franceschini criticava “coloro che considerano qualunque iniziativa di valorizzazione con il coinvolgimento di privati come uno svilente ingresso dei migranti nel tempio”. Di contro “l’ossessione dell’autonomia speciale – sottolinea Pavolini – introdotta dalla riforma del 2015 per una serie di musei, parchi e altri Enti statali della tutela”, ha scatenato la corsa a “cercare affannosamente tutti i possibili modi di fare soldi, con prassi di valorizzazione le più strampalate, improprie e dequalificanti”, oltre alla corsa ai toto nomine tanto amati dai media.
Come si vede, due mondi che hanno molto a che fare con le radicalizzazioni cui ci ha abituato la politica italiana negli ultimi decenni. Pavolini, che pure sostiene di avere apprezzato il Franceschini che istituì la Sovrintendenza unica, ha poi preso le distanze dal populismo culturale che ha ubriacato di ‘Grandi Eventi’ e bulimie mediatiche i destini del nostro patrimonio. E rifiuta la contrapposizione fra approccio ideologico e pragmatico, mentre stigmatizza il “predominio reale di un’unica ideologia residua, quella del mercato e del consumo”.
Il libro è pieno di esempi illuminanti sulla modalità consumistica di fruire cultura, le grandi città d’arte sono diventate vetrine a cielo aperto per “esperienze emotive irripetibili” che drenano soldi, attingendo a tutti i campi, dallo spettacolo alla moda, allo sport, alla politica. Capofila il Colosseo, ‘sito iconico’ per eccellenza. La proposta di ripristinare l’arena dell’Anfiteatro per farne spettacoli di forte impatto emotivo e anche economico, tiene banco da molti anni, ma l’unica arena al momento è solo quella su cui si scontrano i tanti studiosi dei pro e dei contro. Invece sono già operative e frequenti le visite di imprenditori e politici internazionali ‘in modalità vip’. Su tutte, la passerella di Jeff Bezos e moglie, la passeggiata di Obama, il grande tavolo allestito a fini propagandistici sulla porzione ricostruita dell’Arena dell’Anfiteatro per la foto dei ministri della Cultura del G20, tutte occasioni in cui ovviamente il monumento viene chiuso al pubblico.
Al Colosseo Pavolini dedica diverse pagine e ne fa un paradigma dei molteplici significati e usi della ‘valorizzazione’. Cita una ricerca del 2022 della Deloitte, ‘The value of an iconic asset. The economic and social value of the Colosseum’, eloquente già dal titolo, che sottolinea l’ iconicità del monumento, il suo “valore d’uso indiretto”, un “valore edonico” rappresentato dalla sola vista di un’opera unica e magnifica.
Niente a che vedere col denaro quindi. Eppure, si mangia anche col “valore edonico”, la stessa ricerca si conclude attribuendo al Colosseo “un valore di esistenza” pari a 75,7 miliardi. Un monumento immenso, che “non ha bisogno di eventi straordinari e di affidare a grandi artisti ‘esperienze emotive irripetibili’”.
Tutta l’area antica dei Fori romani e dintorni è stata comprensibilmente catapultata nel bel mondo degli spettacoli straordinari. Pavolini ricorda “la scandalosa autorizzazione a piazzare sul Palatino un mega-palco per l’opera rock ‘Divo Nerone’, che sarebbe dovuta andare in scena dal 7 giugno al 31 luglio 2017, ma fu poi fortunatamente disertata dal pubblico – più saggio degli organizzatori – e ritirata qualche giorno dopo il debutto”.
I ‘grandi eventi’ sul patrimonio culturale fanno molto gola anche ai privati (ricchi, ricchissimi perché servono un sacco di soldi), che hanno scorazzato fra la Reggia di Caserta, allestendo gare di canottaggio nella vasca di Vanvitelli, hanno danzato nel Palazzo Ducale di Mantova o a Palazzo Pitti, nel Salone dei 500 e agli Uffizi, e ancora brindato nei grandi siti archeologici, organizzando mega feste e ricevimenti, ma soprattutto matrimonioni e grandi sfilate di moda. Queste ultime in particolare hanno regalato alle più grandi maison lustro e denaro, con i siti ridotti a ‘splendide cornici’, per un pubblico che dedica solo occhi distratti alle prestigiose location.
Firenze è stata presa particolarmente di mira come laboratorio privilegiato per la sperimentazione di una “devastante alienazione a ore” (Tomaso Montanari) dei suoi gioielli d’arte. Tutti ricordano l’allora sindaco Matteo Renzi che ‘affittò’ Ponte Vecchio a Montezemolo per una cena Ferrari, chiudendolo al pubblico. O il leggendario matrimonio indiano per cui fu chiusa piazza Ognissanti. Si arrabbiarono molto i turisti, come quelli che si erano ritrovati il Colosseo chiuso per le passerelle dei politici.
A Napoli, si sa, lo sport è culto collettivo e cosa di meglio per ‘valorizzare’ il Museo Archeologico Nazionale, che promuovervi feste e iniziative sportive per bambini, facendoli pattinare tra le statue antiche, tirare con l’arco nei chiostri, organizzare gare di ping pong, scherma, volley? Fu la trovata del 2018 del direttore Paolo Giulierini che non poteva certo trascurare il calcio e lì diede il suo meglio con la mostra dedicata a Maradona, immortalandolo poi in una statua di bronzo nel cortile del Museo, rischiando così di svilire non solo il Museo ma anche il significato antropologico-culturale dello sport e del gioco.
Tutto questo apre un altro importante capitolo che sta molto a cuore a Pavolini. La questione che lui definisce di ‘democrazia culturale’. In più sensi. Il patrimonio culturale – spiega – è un bene pubblico per eccellenza e deve essere godibile da tutti, chiudere i siti per i grandi eventi o renderli inaccessibili ai più quando diventano palcoscenici, con prezzi dei biglietti alle stelle, crea forti discriminazioni sociali e annulla quell’inalienabile valore d’uso, ideale, immateriale di cui devono usufruire tutti. Senza contare i danni che si possono infliggere alle ‘splendide cornici’ sfruttate per il divertimento di pochi fortunati. Quindi si deteriora un bene pubblico e se ne limita l’uso. Colpendo appunto i principi della nostra democrazia.
L’uso spregiudicato e improprio del patrimonio storico e culturale autorizza “una deriva, uno slittamento di senso”, sottolinea più volte Pavolini, fino a paradossi come la “francamente becera” campagna lanciata dalla ministra del Turismo Daniela Santanchè che fa promuovere la pizza napoletana alla Venere di Botticelli.
Ma come riportare senso, come fare rientrare questa deriva? Basterebbe ‘mangiare bene’, sottolinea Pavolini, tenendo in premessa i dati consolidati e cioè che “il comparto culturale di per sé genera in Italia un valore pari a circa il 6% dell’economia”. Serve, sottolinea Pavolini, un grande ‘New Deal’, a partire dalla messa in sicurezza del patrimonio che genererebbe a cascata la sicurezza del territorio tout court e nuova occupazione. Obiettivo ambizioso che solo una buona politica può provare a realizzare.
Le conclusioni di Pavolini sono amare: dopo le distorsioni portate dalla riforma di Franceschini, dal nuovo governo Meloni non è arrivato nessun cambiamento. Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha aggiunto alla smania di monetarizzare il patrimonio culturale, la promozione del ‘made in Italy’ all’estero “sotto copertura delle bellezze dello Stivale”.Insomma, il New deal si allontana ancora di più e il “nuovo che avanza ha tutta l’aria di presentarsi come un nuovo al ribasso”.
In foto l’arena del Colosseo vista dall’alto