Com’è ridotto male il vecchio villino di Silvestro Lega

Firenze – Siamo nel 1860: un periodo in cui Francia e Inghilterra già viaggiavano alla grande, godendosi i frutti della Prima Rivoluzione Industriale con la seconda ondata del Colonialismo, ricche di colonie e materie prime, ma anche altrove si andava respirando aria di ricerca e stufa del passato. A Firenze nella scuola più patriarcale e poliziesca, meno curiosa e nepotistica che ci fosse capitavano teste calde e temerarie, disposte a molto pur di infrangere la cortina schiumosa e molle della tradizione. Un po’ le virtù antiemorragiche del clima, per chi avesse debolezze di polmoni, un po’ il disinteresse per le abitudini sessuali degli altri, con un occhio di riguardo per le proprie, la possibilità di apprendere un italiano passabile e respirare aperture mentali lorenesi, unito il tutto alla possibilità di vedere arte sotto forma di pittura, scultura e architettura a piene mani, condita da una certa nonchalance e gusto della battuta, per ferire l’idea e non la persona, facevano sì che qualche seme di novità germogliasse negli orti immediatamente a ridosso della zona dei capestri, ovvero oltre borgo la Croce, fuori porta. 

In quella zona fra rade casette, ma con tanti poderi, si coltivavano erbe, insalate, rose e glicini con garbo e metodo. L’aria era limpida, tersa e bastava scavare un po’ che trovavi l’acqua, facile facile, non come in città. Nel caso che la vena fosse più profonda e abbondante ci pensava l’asino a fare da motore per un bindolo e a irrorare i campi. Abbindolare una persona, vuol dire portala in giro, così come fa l’asino, che gira intorno al pozzo e così fa scorrere una catena con secchielli, che sversano acqua al momento di capovolgersi. Bene questa realtà agreste e idilliaca, un po’ umile, ma schietta e laboriosa doveva esser squarciata da La Ferdinanda: Firenze e Pontassieve sarebbero diventate uscio e bottega. Dall’alto osservava l’andar delle cose Settignano, ferrigna e arroccata, fiera della sua culla di scultori, che si lasciava ritrarre come un semplice spazio minimale fatto di pietre e qualche bottega.  Giù da basso: forosette, nutrici, renaioli, contadini, che fanno l’orto o rientrano dal mercato in città col carretto, nutrici attente e balie ubertose, con quella loro impercettibile sacralità e, verso aprile, signori e signoroni, artisti e imprenditori, per respirare l’aria più sottile e profumata.

Bene, a Firenze è questione di poco che vedremo sparire il Bindolo di Silvestro Lega, seppur semidistrutto da uno spezzone incendiario dell’ultima guerra, ma pur sempre ombelico della zona de “gli Orti di Piagentina” e documento topografico e storico. Da qualche anno l’hanno, torno torno, recintato e il ristrutturato Villino Batelli giace stravolto e bolso lì vicino, dopo una cura ricostituente dovuta agli investimenti postbellici.

Alle spalle di un supermercato, presso una vecchia industria di matite, c’è una via torta, come un fosso, lasciato libero di cercarsi strada, che, coperto, prese il nome di via della Loggetta. Un tabernacolo le fa da introibo e il vecchio tracciato della Ferdinanda, diventato la Direttissima, la rende senza uscita. Trenta metri, con, alle spalle, un casale ipertrofico, ma pur sempre ex Villino Batelli, uno studio da pittore, seppur di Silvestro Lega, e un residuato di aia col glicine: più lontano il bindolo!

Lo Studio del Vero, della realtà, in tutte le sue sfaccettature più banali o eroiche, l’attimo di una luce che fissa l’istante, uno stornello che unisce, una melanconia affettuosa, un vespro sospeso, un saluto, che può essere un addio. Il colore dà corpo all’emozione e la pennellata, la macchia, si fa così veloce, che brucia i tempi della posa fotografica. La Fotografia necessitava in quegli anni di posa, fissava quindi l’immagine, ma non l’emozione. La luce, la caduta, l’incontro, una situazione affettuosa, un giorno immobile d’estate, il ritratto: questi i temi pittorici. Costume per una festa, il documento d’arte, la rappresentazione di una persona coi suoi tratti somatici, la sua condizione sociale descritta da oggetti presenti nel teatro di posa, talvolta con una sottilissima vena ironica: questi i soggetti fotografici. Qual è la differenza tra oggetto, la sua resa fotografica e la sua descrizione pittorica per un macchiaiolo?
Lungo l’Arno, superato il ponte da Verrazzano, riparte la corsa del verde interrotta da un monumento al disturbo di stomaco. Una comoda pietra miliare dello studio del Vero, che era Villa Tommasi, architettura ariosa, ma contenuta, sulla proda, verso strada, ostenta un colore, che quelli al quarzo appaiono più gradevoli, con una serie di adattamenti per le umane esigenze di ricevimento e dotazione camere di cosi cementizio interesse da ammirare i caseggiati retrostanti con i balconcini, creando così un unicum urbanistico. Ma fin qui chi se ne cale, stanno sempre a guardare il capello, evidentemente non hanno niente altro di meglio da fare: passatisti, codini, bigotti, intralciano il nuovo, non hanno idee e impediscono di fare a chi ha idee, imprenditorialità, soldi e capacità!Ora, e qui cade l’asino, il nuovo viene sbranato: la possibilità di capire e controllare de visu da parte di tutti, senza troppi ampollosi giri di parole, la corrispondenza biunivoca tra Vero, Studio e sua Espressione. Questo complicato e sfumato passaggio s’inverava velocemente proprio nel fronte, ma questa volta posteriore, della Villa Tommasi, che, vista dalla sponda opposta, dove c’è per intenderci all’Anconella, ti permetteva di decodificare tutto il processo di sintesi, di schiacciamento dei piani prospettici, che era stato effettuato dal Macchiaiolo. La differenza tra apparente selezione e accurata registrazione di ogni singolo particolare con un colpo di pennello, che non era sbafato a caso, ma anche con un leggero ingobbimento che voleva registrare una realtà architettonica. L’unica speranza è che sia stata fotografata prima dell’adattamento a struttura ricettiva da un novello Alinari, che abbia usato strumenti ottici di ultima generazione per misurare la resa cromatica e la sua restituzione su tela, ma a vedere il colore d’intonacatura è già grasso che coli che abbiano visto la stecca RAL o il Pantone!

Quindi il Lega come ha sentito scambiata la costruenda massicciata della Ferdinanda con gli argini  dell’Arno, così ha visto Villa Tommasi, nicchia d’arte, trasformata in metri cubi d’investimento e spalmata di un colore resistente all’usura degli agenti atmosferici e agli attacchi dell’umidità, con loggette improbabili a pilastro al piano primo e archetti ribassati al piano terreno! Sul retro idem per il colore, rinforzato da un’estensione maggiore della superficie che fa ricordare, più che una “macchia”, una pàtacca!
E’ forse, per spirito di polemica, che sento di responsabilizzare chi di dovere per tutte queste cialtronerie, che certamente non aiutano a musealizzare la città, ma che però pullula di pullman, come formicaleoni, che pagano tasse d’ingresso e devono velocemente vomitare pasti per il formichiere di turno.
foto: www.frammentiarte.it
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