Civiltà contadine: Ayas, la storia di un territorio senza tempo

Antagnod (Val d’Aosta) – La vita scorreva anno dopo anno, secolo dopo secolo, in un ritmo scandito dalle stagioni, dalla raccolta dei frutti della terra, dai pascoli e dai rituali. Sempre gli stessi. Ayas è l’alta valle dell’Evançon, ai piedi del Monte Rosa; Krämerthal – ʺValle dei Mercantiʺ – è il nome dato dai cartografi svizzeri del XVI secolo ai territori a sud del Colle del Teodulo, governati dai Conti di Challant.

In Ayas il trascorrere del tempo non cambia le abitudini, almeno fino agli anni dopo la seconda guerra mondiale. Negli anni ’70 una donna, Rita Visendaz, insieme al marito Francesco Biàsia, documenta, con riprese amatoriali, la vita quotidiana della valle. Un appassionato racconto, misto di ricordi  e documenti inediti. Rodolfo Soncini Sessa, professore del Politecnico di Milano, curatore del Museo della civiltà contadina di Mirabello e frequentatore della valle da più di 60 anni, ha ideato e realizzato, insieme a Guido Sagramoso, un docu-web (https://untempo-inayas.it/) che raccoglie e rende disponibile questa testimonianza.

Professor Soncini Sessa ci parli del suo ‘incontro’ con Ayas…

In Ayas nel 1989 acquistai un rudere, che ho restaurato e adesso è la nostra casa in montagna. Su una parete di questo rudere c’erano delle pitture a tempera del 1628. Facendole restaurare abbiamo scoperto che i gialli erano realizzati con una sottile lamina d’oro, applicata sul muro. Mi sono incuriosito perché supponevo che questo paese in passato fosse stato povero, come tutti i paesi di montagna. Chi poteva disporre di una ricchezza tale da utilizzare dell’oro per una pittura della sua casa? Cercando una risposta mi sono imbattuto in carte d’Italia del XVI secolo in cui compariva Ayas, assieme a Milano e Torino, mentre persino Aosta non era rappresentata. Ho così ri-scoperto una storia che si era persa, dimenticata: l’esistenza di una via commerciale che passava per Ayas e legava la Lombardia, il milanese e Vercelli con l’Europa tedesca”.

Che altro ha scoperto riguardo ad Ayas?

Con questa storia, assieme a Guido Sagramoso e con il supporto del Comune di Ayas e del suo sindaco Davide Merlet, ho realizzato un film (Ayas e la scomparsa della Kraemerthal; https://www.youtube.com/watch?v=mCV2D_GQAqM) che ha ricevuto nel 2002 il “Premio Alessandro Valcanover per lo studio della montagna”, conferito dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Realizzando il film ho constatato come lo scoprire la storia di un luogo lo renda più vivo e interessante. È come se cadesse un velo.

Il passo successivo l’ho compiuto a Mirabello di Ferrara, dove la mia famiglia ha una tenuta. Un ex-mezzadro mi regalò una collezione di antichi succhielli per legno. Dietro a quei succhielli stava un’intera cultura, che stava svanendo. Mi venne allora l’idea di documentarla e, con l’aiuto di mia sorella, ho coinvolto l’intero paese nella creazione di un museo, sia fisico che virtuale (https://ilmuseodimirabello.com/)”.

Nella sua attività ha recuperato anche lavorazioni, costumi e riti di Ayas con l’aiuto di persone del luogo…

Rita Visendaz filmò, con suo marito Francesco Biàsia, la vita di Ayas all’inizio degli anni ’70; ma non usarono mai quei video, se non in sporadiche occasioni.  Quando videro il mio film su Ayas mi chiesero se si potesse fare qualcosa con essi. Allora, eravamo nei ’90, si poteva soltanto produrne dei video-CD, perché non c’era ancora Internet. Ma non vollero, per rispetto delle persone che avevano filmato. Nel 2016, Francesco nel frattempo era mancato, Rita è tornata a trovarmi. Assieme abbiamo restaurato e commentato i film, e realizzato un sito per ospitarli. È una fotografia della vita di Ayas cinquant’anni fa. Ma era la stessa vita di duecento anni fa: la civiltà della montagna era immobile da secoli”.

Da quanti anni lavora a questo progetto?

Da quattro anni. È stato un grande lavoro collettivo. Cercando il modo di scannerizzare in full-HD tutto quel materiale (13 ore di filmati), un’operazione molto costosa, abbiamo conosciuto Carlo Bazan, che si è innamorato del progetto e si è offerto di lavare e scannerizzare tutto il materiale al puro prezzo di costo, che è stato pagato grazie a un contributo del Comune di Ayas. Rita ha commentato i film. Guido li ha editati, io ho ideato il docu-web e realizzato il sito che lo ospita. Sarà composto da 122 video, organizzati in una struttura semantica.

Questo bellissimo progetto evolverà in un altro percorso?

Per il momento il nostro obiettivo immediato è completare tutti i video. Ci vorranno ancora un paio di anni. Al momento sono disponibili in rete solo ottanta video, su centoventidue. L’idea poi è consegnare questo sito a un ente, ancora da individuare, che si assuma il compito di tenerlo vivo in futuro: la tecnologia evolve rapidamente e tra qualche anno  sarà necessario aggiornare i formati dei video perché possano ancora essere fruiti.

Un mio antico sogno è che nasca un museo della cultura ayassina ad Ayas. Era una cultura povera, ma geniale: pensate, si viveva a 2000 metri usando pochissima energia, tutta autoprodotta; oggi non saremmo più in grado di farlo.  Era anche complessa e umanamente ricca, molto ricca. Con mia grande soddisfazione la nuova Amministrazione Comunale  ha intrapreso in questi mesi la realizzazione di un museo diffuso e i video ne faranno probabilmente parte. Un museo diffuso, perché Ayas è una federazione di villaggi: Ayas non esiste, non c’è un centro che si chiami Ayas. Ayas è l’insieme di 35 villaggi che, da tempo immemorabile, si presentano all’esterno come un tutt’uno”.

Ogni villaggio ha un elemento che lo identifica?

Ogni villaggio ha un nome. Alcuni sono formati da poche case, altri da varie decine. Alcuni sono più importanti, molti sono oggi abitati soltanto l’estate, in particolare quelli oltre i 2.000 metri, mentre cinquant’anni fa tutti erano abitati e in alcuni di questi c’era anche la scuola. ”.

Quanto si estende in altezza Ayas?

Va dai 1300 di La Serva, il più basso villaggio di Ayas,  ai 4200 metri s.l.m. della vetta del Castore. I villaggi principali sono posti attorno ai 1800 metri di quota”.

Quali sono gli aspetti culturali più interessanti?

Ayas nasce da un ibridazione di genti: dal fondo valle salirono quelli che oggi chiamiamo  franco-provenzali, formati da ondate successive di popoli: prima  i Salassi (una popolazione Ligure-Gallica), poi Romani, indi i Goti. Verso il 1100, dai passi del Monte Rosa scesero i Walzer: una popolazione germanica, che si insediò nelle parti più alte di Ayas. La peste del 1630, quella di cui narra il Manzoni, produsse una grande moria nella bassa Valle d’Aosta e ad Ayas. I Walzer scesero allora più in basso e si mischiarono ai franco-provenzali. Ne nacque una cultura meticcia e complessa, che è ben rappresentata dal ‘rascard‘ di Ayas, una casa polifunzionale, ottenuta sovrapponendo  la Blockhaus walser, propria dei paesi tedeschi (un magazzino per gli attrezzi e/o un granaio-fienile), sopra di una casa in pietra a due piani: la stalla/residenza invernale, sotto, la residenza estiva (peyo),  sopra. Questa ibridazione culturale è molto interessante.

Il  museo diffuso, racconterà questa cultura tramite cartelli sparsi nei villaggi, che assoceranno testi esplicativi e filmati agli edifici più interessanti, mediante QR-codes. Per esempio, spiegheranno che il grano veniva trebbiato nel tardo autunno nell’era, il locale centrale del rascard che fungeva da aia al coperto, perché, essendo a questa quota l’estate molto breve, non si poteva sprecar tempo per trebbiare subito dopo la mietitura, come in pianura. Si trebbiava solo quando i lavori all’aperto erano terminati e spesso allora c’era già la neve”.

Altri progetti in vista?

A seguito di un viaggio in Islanda fatto questa estate, ho concepito l’idea di un nuovo progetto. Ho visto come gli Islandesi siano stati abili nel valorizzare turisticamente la Dorsale medio-atlantica, una serie di fratture e vulcani, che attraversa la loro isola. Le fratture si allargano e  allontanano la placca Americana da quella Europea di due-tre centimetri all’anno. L’Islanda è l’unico punto emerso di questa dorsale che si estende sotto le acque dell’Atlantico per 16.000 chilometri. Un milione e mezzo di turisti visitano l’isola ogni anno per vedere fratture e vulcani.

 Ayas ha un’analoga  peculiarità geologica, interessantissima. Le Alpi sono nate dallo scontro  della placca africana contro quella europea, dopo che la prima ha chiuso l’oceano (la Tetide) che le divideva. Ad Ayas, nel Vallone delle Cime Bianche, sono ben visibili le tracce di questo titanico scontro: il fondale oceanico che si espandeva, alcune isole coralline che emergevano dall’oceano (le Cime Bianche appunto), i sedimenti marini metamorfizzati nei verdi ofioliti, una fossa tettonica del fronte africano, gli stiramenti prodotti dall’innalzamento del Monte Rosa, che è tutt’ora in corso. Mi piacerebbe realizzare un centro turistico, in un opportuno punto panoramico, e dotarlo di strumenti multimediali che raccontino questa storia e mostrino come si è formato il paesaggio che si vedrà dalle finestre ”.

Qual è il significato della parola Ayas?

Questa è una domanda che molti si sono posti da secoli. Nessuno ha una risposta certa. È un toponimo molto antico, probabilmente celtico. Di esso ci sono solo due altre occorrenze nel mondo: il torrente Ayasse, nella valle di Champorcher, e la città di Ayas in Turchia, visitata da Marco Polo nel 1270;  ma non credo che quest’ultima abbia una connessione con la nostra Ayas. Potrebbe essere una parola collegata all’acqua, ma ritengo fantasiosa l’associazione che alcuni propongono fra Ayas e il latino ad iacium (che ha dato  l’italiano addiaccio): il luogo dove gli armenti sono chiusi per passare le notti”.

Che cosa vive ancora di questo mondo rappresentato nei video?

Poco o nulla. Sono passate due generazioni dall’epoca dei filmati. Gli alpeggi, che una volta erano gestiti da ayassini con un’annua transumanza verticale, oggi sono in gran parte abbandonati. Qualcuno ospita greggi di pecore italiane tenute da pastori maghrebini. A giugno le pecore vengono dal Biellese, dove hanno svernano e vi ritornano alla fine di settembre: una transumanza orizzontale con muli e agnellini. I pastori vanno e vengono dal Maghreb. L’antico alpeggio con le vacche, dove si produceva la fontina,  è sparito, anche perché con le norme europee è diventato impossibile lavorarvi il latte.  Stanno sparendo pure i campi terrazzati con cui si producevano i cereali per il pane e il fieno per le vacche in inverno. Le poche vacche che ancora ci sono rimangono a pascolare nei campi vicino al villaggio, perché non è più necessario, come un tempo, produrvi il fieno per l’inverno: è più semplice ed economico importarlo dalla pianura.  Pascolando, le vacche distruggono i terrazzamenti. Sorge così un problema di stabilità dei pendii e problemi idro-geologici. I muretti di sostegno sono un’opera viva e andrebbero mantenuti e curati come facevano i nostri vecchi”.

Foto: Rodolfo Soncini Sessa

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