Città plurale e percorsi di integrazione, intervista a Don Momigli

Firenze – Le città sono il punto cruciale delle trasformazioni della vita sociale e oggi riflettono la condizione di pluralità nella quale siamo immersi e con la quale siamo chiamati a confrontarci e interagire: pluralità di soggetti; diversità dei riferimenti valoriali; molteplicità di culture; differenziazione delle esperienze religiose; vasti flussi migratori di persone e famiglie.

In questa ottica si muove il nuovo libro di Don Giovanni Momigli che s’intitola appunto La città plurale, Migrazioni, integrazioni, unità civica e che ha riscosso subito forte interesse anche perché le riflessioni e le proposte di Don Momigli si basano su un’esperienza concreta, effettuata “sul campo” fin dagli inizi degli anni ’90 a S.Donnino, località antesignana dei flussi migratori e delle problematiche legate all’integrazione e quindi alle problematiche dalla la plurietnicità, la multireligiosità, l’interculturalità. Abbiamo incontrato Don Giovanni Momigli cercando di mettere a fuoco insieme a lui alcuni punti salienti della sua ampia disamina.

 Ne “La città plurale” hai scritto che in tema di integrazione non basta confrontarsi e non è sufficiente camminare accanto.. Cosa bisogna fare?

momigli la città plurale“La persona, quale essere sociale, ha bisogno di relazione. Senza la relazione la stessa identità diviene astrazione. In tema di integrazione, ma non solo su questo, è certamente necessaria l’apertura al confronto, ma non si possono né teorizzare né vivere praticamente –come troppo spesso aggi avviene – cammini paralleli. È necessario camminare insieme, dandosi obiettivi comuni, lavorando per raggiungerli mettendo in comune quel che ciascuno è e quel che ciascuno può fare.. Per questo ritengo che prima della concretezza dei percorsi, sia necessario un radicale cambio di mentalità, di atteggiamento. Se questo non avviene, i processi di interazione e di integrazione rimarranno una chimera”.

 Esorti, quindi a metterci in posizione di prendere la rincorsa.. cosa significa?

“Per attivare veri e propri percorsi di integrazione, che debbono necessariamente coinvolgere sia le persone che arrivano sia la popolazione locale, andando oltre le prassi inconcludenti che caratterizzano le azioni messe in atto. Una nuova progettualità che punti non solo al controllo, ma al governo del fenomeno migratorio, può nascere solo se riusciremo a fare una salto etico, culturale, sociale e anche politico. Per fare un salto è necessario prendere la rincorsa. E a me pare che si sia ancora fermi. Ma senza questo salto di pensiero e operativo, non riusciremo ad affrontare positivamente le sfide poste dal fenomeno migratorio, trasformando in risorsa per l’intera comunità le indubbie problematiche che questo fenomeno pone”.

 Ma in che modo il fenomeno migratorio si può trasformare in risorsa per l’intera comunità?

“Non ci può essere governo se manca la coerenza delle scelte e degli strumenti con l’obiettivo perseguito. I vari modelli di integrazione dimostrano di non essere adeguati alla situazione attuale. In Italia, poi, si può parlare di un modello ibrido: assimilazionista negli intenti e multiculturale nella pratica, con tutte le storture che questo comporta. Io ritengo che la nostra società, che di fatto è sempre più plurietnica, debba essere interculturale, intendendo l’intercultura non come dato ma come processo. Ecco perché più che un modello, sulla base della mia piccola esperienza, propongo un principio operativo, mosso e sostenuto da logiche deduttive e induttive, che si interrogano e interagiscono. Un modello che colloca l’intera vicenda migratoria entro una precisa visione di società, con forte aderenza ad alcuni valori chiave e alla concretezza del contesto, assumendo l’interazione come orientamento di fondo e come modalità operativa”.

Come arrivare, dunque, alla “costruzione dell’unità civica della città plurale?

“La città è il luogo principe per la concretezza dei processi di interazione e di integrazione. Del resto le città sono frutto dell’incontro fra culture diverse ed oggi sono proprio le città che possono svolgere un ruolo fondamentale anche per ridare alla politica il senso del progetto, ritrovando un coinvolgimento nuovo dei cittadini. La comunità civica, però, deve essere una, pur nella molteplicità delle sue articolazioni. L’unità civica tuttavia può realizzarsi quando gli abitanti di una città si sentono parte di essa. Questo presuppone che vengano riconosciute le somiglianze ma anche le differenze e che vengano valorizzate entrambe. L’unità civica è data dal condividere, non tanto i presupposti, che oggi sono diversi in relazione alla storia, alla cultura, alla religione e all’esperienza di ciascuno, ma almeno lo scopo. E questo ci riporta all’inizio: non camminare accanto, ma insieme, interagendo costantemente”.

Scrivi che non è sufficiente avere città sempre più digitali ed efficienti. Di cosa c’è bisogno?

“La città, anche se deve divenire sempre più efficiente, pure sul versante digitale, non può essere pensata solo nella sua dimensione funzionale. La città ha un cuore che batte: quello delle donne e degli uomini che la abitano. Ecco perché la città è pure lo spazio dei sentimenti, della capacità di evocare memoria e di progettare futuro. La città è data dal protagonismo di chi l’abita”.

Foto d’archivio: don Giovanni Momigli

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