Cinque incontri per capire la città, l’Istituto Storico della Resistenza interroga il Secolo Breve

Firenze – La rendita e Firenze: parte con i fuochi d’artificio, il progetto Cinque identità, una città, con cui l’Istituto Storico della Resistenza Toscana passa al setaccio i grandi mutamenti del Novecento e porta nei quartieri, dove la storia ha messo le sue radici, l’intenso racconto del Secolo breve attraverso cinque incontri/confronti. Un punto di vista che comprende vari aspetti sul mutamento della nostra città, come un filo rosso che sottintende la storia del Novecento fiorentino raccontata per quartieri. Un’impresa interessante, che coinvolge l’aspetto storico, ma anche culturale, urbanistico, economico, forse, in primis, in quanto il cambiamento che Firenze sta sopportando non può prescindere dalla vecchia domanda con cui cominciano gli icnontri: di chi sono i soldi?  Capofila dell’impresa, l’Istituto Storico della Resistenza fiorentino, che, con la collaborazione di alcune fra le figure chiave della città, tenta di dare il senso di un percorso che porta a leggere in modo diverso la storia di una città che anche nel Novecento è stata foriera di idee e protagonista di una stagione che ha visto gettare le basi per la contemporaneità. “Un’operazione che nasce da una convinzione profonda – dice Matteo Mazzoni, direttore dell’Istituto – quella che la conoscenza storica sia fondamentale per leggere la modernità. Un percorso che rientra in quello intrapreso dall’Istituto, creare un progetto di rete, espresso nell’apertura alle attività con gli altri”.

Una sinergia insomma, declinata in incontri che avverranno nei 5 quartieri fiorentini, le 5 identità cui si fa riferimento nel titolo del percorso. L’evento, che nasce in collaborazione con l’assessorato alla Cultura del Comune di Firenze e con le Biblioteche comunali fiorentine, è stata presentata questa mattina dal presidente dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’età Contemporanea, Giuseppe Matulli e dal direttore Matteo Mazzoni con Stefano Casini Benvenuti, direttore dell’Irpet, e Francesco Gurrieri dell’Università di Firenze.

“Il programma si concentra prevalentemente sulla fase più recente, quella tra il ’74 e l’89, dove nel mondo che frana forse le vicende della città sono andate meglio di quanto molti di noi fiorentini siamo tentati a pensare”, mette in evidenza Matulli.

Tra i primi temi all’ordine del giorno – verrà trattato giovedì 26 settembre alle Oblate – c’è il grande dibattito sulla relazione tra rendita e sviluppo. Sono i numeri che porta il direttore dell’Irpet, Stefano Casini Benvenuti, che certamente fanno un po’ di chiarezza.

Ma la rendita è davvero una caratteristica distintiva a Firenze? Sembra proprio di sì: osservando i redditi dichiarati per i fabbricati emergono valori decisamente più alti delle altre aree urbane italiane. Nel 2017 sono stati dichiarati 128.414 fabbricati con un reddito del 5,4% sull’imponibile totale. “La rendita a Firenze ha un peso rilevante e da essa traggono vantaggio alcune attività: sia quelle direttamente titolari della rendita che quelle ad essa collegate – spiega Casini – L’economia è cambiata seguendo tendenze generali, la deindustrializzazione a partire dagli anni Settanta con lo sviluppo del Terziario, ma mostrando anche fenomeni specifici, in particolare il maggiore sviluppo del terziario commerciale e turistico a scapito dei servizi alle imprese”.

E alcune risposte, sintetiche e tutte da sviluppare nei prossimi incontri, emergono. Come fa notare il direttore dell’Irpet, la rendita opera in modo diverso se si considera la consistenza di Firenze al di là della sua estensione comunale, bensì come territorio ampio che comprenda anche i flussi di entrata e uscita quotidiana dei lavoratori, con in più l’impatto turistico, e se invece viene considerata all’interno del territorio del Comune. Mentre nelprimo caso si assiste a una resistenza imprenditoriale che vede comunque lo sviluppo di varie realtà economiche importanti (in primis la farmaceutica), dall’altro non si può prescindere dal fatto che Firenze è sempre stata, dagli anni ’50 a crescere, un grosso polo di attrazione a livello turistico. In un certo senso, ecco dunque il condizionamento che ha subito, attraverso la rendita: quello di sviluppare un terziario che a differenza di altre città come ad esempio Bologna, si è incentrato sullo sviluppo dei servizi alla persona piuttosto che a quelli all’impresa. Un settore, quello dei servizi alla persona, che viene declinato in buona sostanza come servizio al turismo, dal commercio, alla ristorazione, all’accoglienza.

Occupazione in crescita, è vero, ma occupazione “poco qualificata” e spesso precaria. In numeri, ciò vuol dire che si sta parlando di un territorio che, al di là dei trecentocinquantamila residenti, vede ogni giorno l’ingresso di 250mila pendolari in entrata, di 70mila in uscita e di altri 30mila turisti. il rischio è il soffocamento della città dal punto di vista di richiesta di servizi. Una caratteristica che, al di là delle evoluzioni economiche epocali, rende il caso Firenze  pressoché unico. Con un elemento in più, come suggerisce il professor Gurrieri: l’impatto dei capitali finanziari esteri, un appuntamento con la finaziarizzazione internazionale cui Firenze rischia di trovarsi impreparata.

Un cambio di passo, quest’ultimo,  che trasforma la città: al rialzo dei prezzi delle case e del territorio corrisponde la scarsa qualità dell’occupazione, ma anche un altro fatto importante: la rendita, visti i nuovi soggetti internazionali, rischia di non fermarsi più a Firenze. Un elemento su cui il campanello d’allarme suona e che dovrebbe essere compreso fino in fondo in particolare da chi gestisce la città. Con un ulteriore paradosso: che mentre i capitali soprattutto stranieri si scaricano sulla capacità immobiliare fiorentina (spingendo i residenti fuori, verso le periferie e i centri limitrofi), tuttavia gli investimenti nel territorio fiorentino scendono. Di quanto? Un numero impressionante: oltre mille miliardi in meno negli ultimi anni. Perché il problema legato alla rendita crea anche questo corto circuito, i soldi arrivano ma tornano indietro, a chi li ha messi. Sviluppo poco, occupazione che sale ma è di cattiva qualità, in buona parte precaria.

 

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