Cinema, scienza e filosofia: l’educazione alla razionalità critica

L’apertura del Festival Giano a Castelnovo ne’ Monti

L’apertura del festival Giano, “un festival di Cinema, Scienza e Filosofia” (Castelnovo ne’ Monti di Reggio Emilia, 18-20 ottobre 2023, https://www.giano-festival.itcon), e la successiva rassegna è stata affidata a due pellicole di Liliana Cavani dedicate alla scienza: il Galileo del 1968 e il recentissimo L’ordine del tempo, liberamente ispirato all’omonimo saggio di Carlo Rovelli. Il contrasto fra l’immagine scientifica del mondo e quella del senso comune, nel XVII secolo depositata nella cultura egemonica dominata dalla Chiesa, è un tema sempre attuale nonostante gli attori siano (in parte) cambiati. Dunque ogni contributo che serva a migliorare la consapevolezza scientifica del senso comune (nel caso del Galileo superando anche la separazione fra le “due culture” umanistico-artistica e scientifica) non solo è auspicabile ma anche necessario, come ha mostrato il corso che alcune opinioni hanno avuto nel periodo della recente pandemia.

Il problema della diffusione di una cultura scientifica non concerne tanto la conoscenza di specifiche teorie, spesso accessibili solo agli specialisti, quanto l’abitudine a una razionalità critica che è vitale per la formazione della cittadinanza e dunque anche al funzionamento della democrazia. Non è un caso che non solo il Galileo ma anche altre opere della regista mostrino una forte componente engagé.

Le relazioni fra cinema e scienza (e, per tacer d’altro, filosofia) sono oggetto di un dibattito che prolifera in pubblicazioni, convegni, festival, rassegne, cineforum e perfino corsi accademici. Fatto sta che i film che hanno per tema la scienza si presentano prevalentemente come biografie. Anche se sembra difficile fare altrimenti senza sconfinare nel genere documentario è anche inevitabile che lo spazio riservato alla scienza come tale sia limitato a qualche accenno, magari alla recita di passi dalle opere dello scienziato di turno – il che fa di un film poco di più di una lezione registrata – o a qualche accenno nel contesto di un dialogo. In fondo nessuno va al cinema per laurearsi in fisica e d’altra parte alla fine della proiezione gli spettatori non sapranno nulla di più di fisica di quanto non ne sapessero prima. Ma il cinema può contare sul coinvolgimento emotivo dello spettatore e così suscitare interesse e passione per la vicenda che, nel caso specifico, diventa interesse per il lavoro stesso della scienza e degli scienziati. Questo lavoro ha un nome, si chiama metodo.

C’è una scena nel Galileo della Cavani nella quale lo scienziato cerca di convincere i suoi colleghi aristotelici della verità del sistema eliocentrico invitandoli a guardare attraverso il cannocchiale: “sedetevi e guardate qui dentro. Provate. Solo un’occhiata, per favore”. “Io non vedo niente” risponde uno. “Non vedete perché non volete vedere. Chi vuol provare? È come mettersi un paio di occhiali. Solo un’occhiata”.

Non è esagerato dire che più di una generazione di studenti delle scuole superiori si è familiarizzata con la prima rivoluzione scientifica guardando Galileo a supporto della didattica ordinaria. Nella maggioranza dei casi i curricula di studio forniscono però informazioni scientifiche piuttosto che esplicitare il metodo, con il risultato che non si sa riconoscere se una nuova informazione è scientifica o no a meno che non venga già presentata come tale. Questo a sua volta rende difficile saper distinguere scienza da non-scienza, conoscenza fondata da opinioni personali, notizie attendibili da notizie false. L’emergere del sottobosco delle pseudoscienze durante la pandemia ha reso palese che il problema van ben al di là del perimetro dei sistemi d’istruzione.

L’episodio sopra citato del Galileo facilmente rischia di passare inosservato se si pensa, sbagliando, che illustri una banalità: in che cos’altro potrebbe consistere il metodo scientifico se non nell’osservare i fatti? In realtà si tratta di uno dei temi centrali e più controversi del metodo. Non è necessario il ricorso alla letteratura specialistica, basterà prendere visione della scena di un altro film, il Wittgenstein di J. Harman (1993), nella quale Wittgenstein dialoga con uno studente: “perché sembra più naturale alla gente che il Sole giri intorno alla Terra piuttosto che il contrario?” chiede Wittgenstein. “Ovviamente perché possiamo vederlo” risponde lo studente. “E cosa vedremmo se la Terra girasse intorno al Sole?” conclude il filosofo.

Ci sono innumerevoli esempi nella storia della scienza che documentano quanto lo strumento e le teorie influiscano sui fatti, uno dei più divertenti riguarda la ricerca dei cosiddetti “spiriti animali”. Allo scopo di determinare se gli spiriti animali che si pensava circolassero nei nervi e nei muscoli fossero liquidi o gassosi, il fisiologo Giovanni Borelli (1608-1679) immerse nell’acqua il muscolo di una gamba di un piccolo animale. Dal momento che non ne uscivano bollicine ne concluse che gli spiriti animali dovevano essere liquidi. Questo va bene per le ruote delle biciclette non per i muscoli. Cosa c’è di sbagliato in tutto questo? Una concezione ingenua della scienza.

Tuttavia anche in una concezione più raffinata della scienza si annida un rischio. La dipendenza delle osservazioni dagli strumenti e dalle teorie è infatti banalizzata, deformata e strumentalizzata per sostenere interessi e opinioni soggettivi: dall’idea che non esistono verità assolute si conclude che non c’è nessuna verità e quindi che tutte le opinioni si equivalgono. Certe filosofie, oggi un po’ appannate ma sempre di gran moda soprattutto fra i cultori delle cosiddette “scienze umane”, sono responsabili di questo indebito passaggio (a uno dei padri di questa filosofia del sospetto è dedicato il film su Nietzsche della stessa Cavani). Il dibattito su questi temi è cominciato almeno a metà del secolo scorso e ancora non è sopito, fatto sta però che qualcuno se ne è approfittato per mettere in discussione qualunque verità: nessuna verità assoluta uguale nessuna verità.

Nel cinema, che d’altra parte ha costitutivamente a che fare con la pluralità degli sguardi, non è difficile reperire esempi in cui sono presenti i temi sopra citati, ricorrenti soprattutto nei film sui procedimenti giudiziari. Si potrebbero menzionare la sequenza de L’uomo che non c’era di J. Coen (2001) nella quale un avvocato cita il principio di indeterminazione di Heisenberg a fini meramente retorici, o Rashomon di A. Kurosawa (1950), o L’oltraggio di M. Ritt (1964). Ma se la pluralità delle interpretazioni è più facilmente accettabile per le faccende umane lo è meno per quelle naturali in cui anche il senso comune pensa che la frase “i fatti sono fatti” conti di più.

Non basta per avviare una riflessione su “cinema e scienza e filosofia”?

Foto dal film “Galileo” di Liliana Cavani

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